Pale Blue Dot

Pale Blue Dot è una fotografia del pianeta Terra scattata dalla sonda Voyager 1, dalla distanza di circa sei miliardi di chilometri dal nostro pianeta. Questa immagine ha ispirato il titolo del libro di Sagan del 1994, “Pale Blue Dot: una visione del futuro umano nello spazio”. Sagan, scomparso nel 1996, era il padre di quella fotografia, l’astronomo che aveva avuto l’idea di scattare un ritratto della Terra e degli altri pianeti del sistema solare da una distanza di 40 unità astronomiche, 40 volte la distanza che separa il nostro pianeta dalla nostra stella. “Guarda di nuovo quel punto”, scrisse Sagan nel suo libro “Pale Blue Dot”. “È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita. L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni “superstar”, ogni “comandante supremo”, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole. La Terra è un piccolissimo palco in una vasta arena cosmica. Pensate ai fiumi di sangue versati da tutti quei generali e imperatori affinché, nella gloria e nel trionfo, potessero diventare per un momento padroni di una frazione di un puntino. Pensate alle crudeltà senza fine inflitte dagli abitanti di un angolo di questo pixel agli abitanti scarsamente distinguibili di qualche altro angolo, quanto frequenti le incomprensioni, quanto smaniosi di uccidersi a vicenda, quanto fervente il loro odio. Le nostre ostentazioni, la nostra immaginaria autostima, l’illusione che noi abbiamo una qualche posizione privilegiata nell’Universo, sono messe in discussione da questo punto di luce pallida. Il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico. Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c’è alcuna indicazione che possa giungere aiuto da qualche altra parte per salvarci da noi stessi. La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora. Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto.”

Sono tra le parole più belle che ho mai letto, parole capaci di abbracciare il passato, il presente, ed il futuro, le parole che ho letto a mio figlio appena ho pensato che fosse in grado di capire, e mille altre volte. Sono parole inequivoche, una luce nella notte d’una informazione che sul global warning lascia spesso aperta la porta ai dubbi, parole capaci di scavalcare in un secondo secoli di civiltà, immagini capaci di ricomporre la frammentazione del mio io. Papà parla difficile”, aveva detto mio figlio a mia sorella. Ma qualcosa di tutte quelle parole gli si era conficcata dentro se è vero che a poco più che 4 anni rimproverava un suo coetaneo trentino di avere poco rispetto per la vita, e di sprecare l’acqua della doccia. Eravamo a Vieste. Conny e Riccardo giocavano sulla sabbia, e Riccardo prese a torturare un insetto che gli era capitato tra i piedi.

“Non ucciderlo”, gli disse Conny, “è un animale come noi. Tu ad esempio discendi dalla scimmia”

Riccardo corse piangendo dalla madre, riferendogli che mio figlio gli aveva dato della scimmia. Dovetti spiegare ad Elena che le parole di mio figlio non avevano alcun intento offensivo. Riccardo si tranquillizzò, e riprese a giocare almeno fino al giorno dopo, quando mio figlio, al rientro al lido, lo rimproverò di sprecare un bene prezioso e raro come l’acqua. Non ricordo i giorni successivi, e soprattutto non ricordo né Riccardo né i suoi genitori: forse avevano deciso che eravamo una presenza problematica e avevano chiesto di cambiare ombrellone, forse erano semplicemente tornati a casa. Ricordo invece la prima volta che mio figlio mi ha detto che il suo sogno è di studiare astrofisica. Mi si è riempito il petto d’orgoglio, orgoglio per essere riuscito a trasmettergli una passione che è l’unica risposta possibile alle domande che, come specie, ci poniamo da sempre: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Sono domande che hanno un loro valore intrinseco, indipendentemente dalla possibilità di dare loro un qualche tipo di risposta. Sono domande che vale la pena di farsi per abbracciare l’intero mondo, To Throw Your Arms Around The World, per costruirsi una mente aperta, una razionalità empatica.

Il mio primo telescopio, un 8 pollici, lo acquistai il giorno dopo la scomparsa di mio padre. Era forse il modo per provare a mettermi alle spalle un poco di dolore, o forse era un modo per ritrovarmi perdendomi tra le stelle, le nebulose, le galassie del cielo profondo. L’astronomia era una passione che coltivavo da sempre. Uno dei miei primi libri è stato “Alla Scoperta del Cielo”. Più tardi, negli anni di una adolescenza che strabordava nell’età adulta, quel cielo l’ho cercato nel Vangelo, e infine nella storia delle religioni, e nella filosofia. Dio è ancora una presenza problematica ché non posso rinunciare ad un presenza ordinatrice del caos, ad una razionalità intrinseca della natura. Ma questo e’ un esito in fieri. E magari tra qualche anno mi sorprenderò anch’io a cercare la compagnia di un sacerdote. Oggi Dio, dopo essere stato imposto, dopo essere stato scelto, ha assunto una dimensione geografica, relativistica, contingente, umana e dannatamente umana. E dopo averlo cercato tra le stelle, e nei libri, lo trovo a volte nei volti della gente, soprattutto in quella più umile, negli ultimi.

La foto è stata scattata in Cambogia. Dopo averla scattata sono andato via. Qualcuno, anche recentemente, mi ha detto che “sei qui per vedere, non per cambiare quello che vedi”. E’ una verità innegabile specie quando si ha a che fare con i bambini: dare loro qualche spicciolo è un incentivo a seguitare in una vita di mendicità. Non è una verità assoluta tuttavia. Sono tornato indietro. Lo stipendio medio mensile, in Cambogia, si aggira sugli 80-100 dollari e il PIL pro-capite è in costante aumento grazie al basso costo della manodopera che attrae molte industrie, soprattutto nel settore tessile e dell’abbigliamento. Tuttavia il 35% della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno. In un articolo su El Pais, Martín Caparrós scrive: “Qualche anno fa sono andato a scrivere del Movimento dei sem terra in un angolo dell’Amazzonia. Una donna di nome Gorette mi ha prestato la sua capanna, e io ho creduto che la miglior descrizione della povertà fosse raccontare quello che c’era all’interno”. Nella capanna di Gorette ci sono un machete, quattro piatti di latta, tre bicchieri, cinque cucchiai, due pentole di ottone, due amache, un recipiente pieno d’acqua, tre lattine di latte in polvere zuccherato, sale e latte in polvere, una lattina di olio piena, due lattine di olio vuote, tre asciugamani, una scatola di cartone con qualche vestito, due calendari di qualche negozio con dei paesaggi, un frammento di specchio, due spazzolini, un mestolo, mezzo sacchetto di riso, una radio che non prende quasi niente, due giornali del movimento, il quaderno di scuola, un recipiente di plastica per portare l’acqua dal pozzo, un catino di plastica per lavare i piatti e una bambola di pezza con un vestito rosso e una strana cuffietta. Questi sono i suoi averi nel mondo, insieme a tre tronchi per sedersi, un paio di infradito, una lampada a cherosene e niente più. Sono le stesse cose che ho visto in Cambogia intorno a questa questa donna. Forse manca qualcosa, quel qualcosa che rende una capanna casa, e forse c’è qualcosa in più, quel qualcosa che appartiene al ricovero in disuso dei treni. In Marocco mi hanno raccontato come nel mondo occidentale si faccia ogni giorno uso di più di 150 oggetti, e di come gli oggetto d’uso quotidiano scendano a 90 nei Paesi del Maghreb e a 5 in quelli dell’Africa subsahariana. Chi me lo raccontava non era mosso da finalità ecologiste, anzi. Era il racconto brevissimo e del tutto legittimo dell’ambizione a migliori condizioni di vita. Tornato a casa l’ho tradotto in termini di impronta ecologica. “L’impronta ecologica è un indicatore complesso utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della Terra di rigenerarle. Il concetto di impronta ecologica è stato introdotto da Mathis Wackernagel e William Rees nel loro libro Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, pubblicato nel 1996. A partire dal 1999 il WWF aggiorna periodicamente il calcolo dell’impronta ecologica nel suo Living Planet Report. Nel 2003 Mathis Wackernagel e altri hanno fondato il Global Footprint Network, che si propone di migliorare la misura dell’impronta ecologica e di conferirle un’importanza analoga a quella del prodotto interno lordo.” informa Wikipedia.

Se qualcuno è interessato a conoscere il proprio impatto sul Pianeta potrà chiederlo al seguente link www.footprintcalculator.org/, scaricare il pacchetto di dati relativi al link www.footprintnetwork.org/licenses/public-data-package-free-2018/, oppure accontentarsi di un racconto breve utilizzando quest’altro indirizzo http://data.footprintnetwork.org/#/.

“Secondo i dati del Global Footprint Network se tutta la popolazione mondiale avesse lo stesso stile di vita e gli stessi consumi degli italiani, il Giorno del Sovrasfruttamento della Terra cadrebbe il 24 maggio. Il “Giorno del Sovrasfruttamento della Terra” indica per ogni anno la data in cui l’umanità ha finito di consumare tutte le risorse che il nostro pianeta è in grado di produrre in quell’anno: questi calcoli sono basati sull’indicatore ambientale detto “Impronta ecologica”. “Se tutti gli abitanti della Terra consumassero le risorse come fanno gli Italiani, avremmo bisogno di 2,6 pianeti Terra”, ha dichiarato Mathis Wackernagel, Ph.D., CEO e co-fondatore del Global Footprint Network. “Ma chiaramente abbiamo solo una Terra a disposizione, e non adattarsi ai suoi limiti diventa un rischio per tutti noi. Se il nostro pianeta ha dei limiti, l’ingegno dell’uomo sembra non averne. Vivere secondo le capacita del nostro pianeta di sostenerci è tecnologicamente possibile, economicamente vantaggioso ed è la nostra unica possibilità per un futuro più florido. Costruire un futuro sostenibile per tutti deve essere la nostra priorità “. Quasi ogni anno, il Giorno del Sovrasfruttamento cade sempre prima nel calendario e questo succede a partire dai primi anni ’70, quando l’umanità ha iniziato a vivere in deficit ecologico. Gli effetti del deficit ecologico globale stanno diventando sempre più evidenti in forma di deforestazione, erosione del suolo, perdita degli habitat naturali e della biodiversità, accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera e cambiamento climatico.” (https://www.footprintnetwork.org/2018/05/22/il-24-maggio-e-il-giorno-del-sovrasfruttamento-ecologico-dellitaliail-footprint-calculator-italiano/)

Una delle cose che trovo interessanti dell’idea alla base del Global Footprint network è l’uso del termine “impronta”. L’impronta è quella che lasciamo camminando sul terreno, sulla Terra, e più siamo pesanti più schiacciamo la Terra sotto i nostri piedi, più le manchiamo di rispetto. Un impronta dei piedi è una delle poche cose che resta degli Australopithecus afarensis. Le si è trovate a Laetoli in Tanzania, scolpite nella cenere d’un vulcano che aveva eruttato 3,7 milioni di anni fa, un’inezia se consideriamo il tempo dal punto di vista dell’astronomia. In questo tempo abbiamo appreso che assai difficilmente lasceremo la nostra impronta sul pianeta gemello della Terra. Venere è un inferno. E’ diventato un inferno in conseguenza della vicinanza al Sole, di un campo magnetico assai più debole di quello terrestre, e di un campo elettrico 5 volte più forte. L’effetto combinato di questi fattori ha portato l’atmosfera a gonfiarsi in conseguenza del calore, alla scissione delle molecole di vapore d’acqua, e alla fuga atmosferica dell’idrogeno. Ciò ha determinato la cessazione del ciclo del carbonio giacché l’assenza dell’acqua impediva al carbonio di precipitare dall’atmosfera e di depositarsi nelle rocce. L’aumento dell’anidride carbonica in atmosfera ha causato un effetto serra che oltre una certa temperatura è andato fuori controllo. Sulla Terra “siamo vicini a un punto di non ritorno oltre il quale il riscaldamento globale diventerà irreversibile”, affermava Stephen Hawking. “The evolution of Earth’s climate on geological timescales is largely driven by variations in the magnitude of total solar irradiance (TSI) and changes in the greenhouse gas content of the atmosphere. Here we show that the slow ∼50 Wm−2 increase in TSI over the last ∼420 million years (an increase of ∼9 Wm−2 of radiative forcing) was almost completely negated by a long-term decline in atmospheric CO2. This was likely due to the silicate weathering-negative feedback and the expansion of land plants that together ensured Earth’s long-term habitability. Humanity’s fossil-fuel use, if unabated, risks taking us, by the middle of the twenty-first century, to values of CO2 not seen since the early Eocene (50 million years ago). If CO2 continues to rise further into the twenty-third century, then the associated large increase in radiative forcing, and how the Earth system would respond, would likely be without geological precedent in the last half a billion years”, scrivono Gavin L. Foster, Dana L. Royer & Daniel J. Lunt nel loro studio “Future climate forcing potentially without precedent in the last 420 million years” (https://www.nature.com/articles/ncomms14845). La conclusione dell’articolo prende in esame il futuro. Dato per scontato che il sole aumenterà ancora il suo irraggiamento, gli autori calcolano che alla fine di questo secolo la temperatura della Terra sarà simile a quella dell’Eocene (il periodo che va da 56 a 34 milioni di anni fa): a quel tempo le foreste temperate arrivavano fino quasi ai Poli e la temperatura media terrestre era di circa 8 °C superiore all’attuale. Nell’anno 2250 la temperatura terrestre potrebbe raggiungere livelli incompatibili con la civiltà come la intendiamo oggi. E i tre studiosi affermano che “in this formulation we are ignoring the other non-condensing greenhouse gases (for example, CH4, N2O)”. Basta pensare alla quantità di metano sepolta nel permafrost siberiano ed al fatto che il metano ha una capacità di trattenere gli infrarossi 25 volte maggiore a quello dell’anidride carbonica, e alla maggiore quantità di vapore d’acqua presente in atmosfera in conseguenza del climate warning per farsi un’idea degli attacchi a Greta Thunberg da parte giornali, commentatori politici e opinionisti fino all’incredibile battuta di Maria Giovanna Maglie che “metterebbe volentieri la ragazzina sotto la sua auto”.

A Greta, mia figlia, a Conny, mio figlio, ho dato questo da leggere oggi https://www.repubblica.it/ambiente/2019/05/06/news/il_declino_della_vita_sulla_terra_accelera_fino_a_un_milione_di_specie_estinte_nei_prossimi_decenni-225578515/ , invitandoli ad essere più rispettosi di quanto sia stato io del nostro pale blue dot, e chiedendo scusa “per un mondo che è quel che è.”

Io nel mio piccolo tento qualcosa ma cambiarlo è difficile.


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