Ombre Gialle

La festa

No, Francesca non rimase incinta. Non è quello che capitò. Capitò che a forza di litigare per questa cosa del sesso che mancava, ci lasciammo. Lei voleva arrivare al matrimonio vergine, io non credevo al matrimonio e soprattutto, avevo fretta di vita. Quello che invece capitò è che a distanza di anni, le cosce di Francesca divennero quelle della sorella. Io me n’ero innamorato un giorno di Pasquetta e dopo diversi capodanni m’ero deciso a dichiararmi in una notte di giugno, una notte più nera del batacchio di un manzo nero in una notte senza luna nel bosco che circonda Casale, talmente nera che finii fuori strada con l’auto rovinandola, e non mi dichiarai. La dichiarazione la feci ai carabinieri, ad un vecchio appuntato con gli occhi ancora umidi di sonno e la rabbia di chi viene svegliato mentre sta sognando qualcosa di bello da uno che s’è ubriacato d’amore. Mi tolsero la patente per l’aglianico nel sangue e la dolcezza nel cuore. Quando me la ridiedero, corsi a Frigento con la FIAT 131 gialla che m’ero fatto imprestare da Rocco. Era sera, le scrissi solo ciao. Credevo fosse la sera dei miracoli. Mi sbagliavo. Lei mi rispose notte e a me si ingarbugliarono le parole. Ne ho sempre dette tante di parole, spesso dicendone di sbagliate ma penso infine che se avessi provato a tenere a freno le parole per non sbagliare, quelle giuste non avrebbero trovato un’occasione, una strada sulla quale camminare per un poco. Con Roberta sbagliavo di continuo. Una volta mi disse che non amava le polemiche ma ad amarle, con me avrebbe polemizzato spesso. Il che, inutile spiegarglielo, era un modo per piantare una polemica di quelle dalle quali l’unica uscita è il portone. Restai in silenzio. Fu peggio. Penso avesse ferite dalle quali non si guarisce del tutto, quelle che lacerano la fiducia, che costringono a rimanere svegli e a rinunciare ai sogni, piantati per terra ma senza mai mettere radici troppo profonde, e che con me avesse deciso una posologia minima. Mi disse che non reggeva e aggiunse che se fossi uscito, non avrei trovato una casa dove rientrare. E sparì nel modo in cui si scompare oggi, restando una traccia, un filo di parole alle quali affidare risentimenti e speranze.

Dovrei telefonarti, dirti le cose che sento ma ho finito le scuse e non ho più difese.

In strada avevo addosso il freddo della notte e la tristezza di quando si beve e si ha solo l’anima come interlocutore mentre c’è gente per strada e nei bar e lei sulle scale e in mezzo al mare. Lasciai perdere dopo aver capito che stanotte non ci sei. E che tu ci sia il resto delle ore, un disegno assai bello ma pur sempre un disegno, non basta. Roberta farfugliò qualcosa di confuso che ho scordato e non voglio ricordare. È strano come la memoria sia capace di evanescenze e di sfocature sempre maggiori ed il cuore di memorie che non passano nonostante l’età. Ed il peggio è che non hanno ancora creato un pulsante per rimuoverle dalla playlist. A causa della playlist, Roberta c’è la sera e la mattina e ogni quarto d’ora, segnata dal rintocco delle campane che Don Angelo Mellito non aveva voluto zittire nonostante le strofe e le denunce di Franco che del silenzio delle campane aveva fatto uno dei punti del suo programma elettorale. Franco era infastidito anche dal canto dei galli alle prime luci del mattino e dopo i litigi, i fonometri e le carte bollate, aveva pensato che farsi eleggere sindaco sarebbe stato utile anche ad un sonno ininterrotto e a quella che egli, in una sineddoche imperfetta, riteneva essere la quiete pubblica.  

È stata una fortuna che Franco non sia stato eletto sindaco. Se lo fosse stato, a Casale si sarebbe dovuto rinunciare alle uova e alla frittata con i peperoni all’aceto, che fa parte della dieta dei casalesi da quando il marchese di Torella dei Lombardi aveva fatto del borgo il luogo di confino di risse e stramberie, regalandogli una chiesa per le penitenze, e della mia, dalla prima volta che ho accompagnato mio padre a vendemmiare. Ora mi fa l’acido. E le uova non le sopporto da quando il dottore Pascucci me ne prescrisse due al giorno come rimedio alle mie gracilità e ad una febbre che veniva di sera, e mia madre per farmi vincere la noia dello zabaione, mi costrinse a succhiarle facendo due buchi nel guscio, uno in alto, l’altro in basso, trasformandole nel mio incubo ricorrente.

Sono su un piano inclinato, diafano. Le uova sono in alto, io in basso. Non sono davvero uova ma il loro disegno. Sono un disegno anch’io, uno di quei disegni dell’infanzia, un cerchio per la testa e una serie di segmenti per gli arti, con le dita abnormi e i piedi insufficienti alla stazione eretta. Le uova rotolano e rotolando si trasformano in cubi, mi inseguono, mi travolgono spezzandomi in linee che si ricompongono, mi riformano ma senza che ci sia spazio per una speranza, un esito diverso. Provo a schivare, mi lancio da un lato, corro, vengo travolto, mi ricompongo fino a quando mi sveglio in un bagno di sudore, terrorizzato. Mi alzo. Guardo la sindone sul lenzuolo. Guardo il portone. Mi calmo.

È un sogno che ho fatto fino ai vent’anni, poi quando mio padre si è ammalato e allora le uova e i cubi sembravano aver acquistato velocità e maggiore perizia nel rompermi, e che si è ripresentato infine, inatteso e più stanco, quando Roberta mi ha chiuso il portone in faccia un altro giorno di Pasquetta. Ma forse stavolta è stata colpa dell’aglianico, del tempo che passa, di quello che resta.

Il tempo che resta è l’imperfetto. Quando mi rileggo cercando un filo, trovandolo nell’ottimismo, perdendolo nella disillusione, mi sento più vecchio di quanto normalmente accade. Su una delle mailing list alle quali sono iscritto ho trovato l’offerta di un viaggio riservata a persone che non hanno compiuto i 38 anni. Quando mi rileggo, comprendo che non c’è motivo di prendersela. L’ombra che mi lascio dietro è più lunga della distanza che i miei occhi riescono a percorrere innanzi. Quando lo penso o lo realizzo rileggendomi, mi sento come uno di quei mosconi che restavano intrappolati nelle bottiglie che mio padre appendeva ai peri in primavera per evitare che quelli ne divorassero i frutti e che finivano per affogare e abbrustolire nella melassa dell’estate.

Ogni estate è peggio. La luce mi rinfranca, il caldo mi asciuga ma la sensazione è che le estati siano sempre più brevi e fuggevoli. Penso che sia colpa del Monte Fato che da quando i Campi Flegrei hanno preso a sollevarsi e a minacciare di ricoprire il cemento di tufo giallo, si è sollevato anch’esso di mezzo metro buono nonostante Michele Paraviso cerchi di accorciarlo con la motosega. A Casale il tempo è misurato dal Monte Fato soprattutto ad agosto. Alla controra, l’ombra ha già sopravanzato Villa Reale e s’avvia a conquistare la borgata dei Caggione prima di inghiottire le restocce e i campi arati di settembre. Villa Reale è uno degli obelischi che Nicola Cadetti ha eretto alla sua virilità, un albergo che per il poco terreno a disposizione, si sviluppa in altezza assai più che in larghezza e che da quando il coronavirus gli ha rubato i turisti e i matrimoni, un paio di inverni fa, sembra un albero di Natale al quale è stata rubata la festa. Manca una foto alla parete che ritrae il personale, una foto in bianco e nero e con la grana grossa degli anni ’30, e manca la neve che a Casale una volta cadeva abbondante e che ora è rara e quando si posa, sembra un velo di polistirolo al punto che i bambini pensano che possa ordinarsi su Amazon per evitare la scuola ma per il resto, Villa Reale dopo il coronavirus potrebbe fare concorrenza all’Overlook Hotel. Franco s’era opposto alla costruzione pensando che il ghost tour avrebbe fatto concorrenza alla funiculare della DECO’ e al Santuario della Madonna del Buon Consiglio dei Frati Francescani dell’Immacolata, un nome che è già sufficiente alla penitenza. Aveva invocato un vincolo paesaggistico in ragione della descrizione che di Casale fa l’Annuario d’Italia, guida generale del Regno di Bontempelli, ma poi s’era lasciato convincere dalla speranza che la costruenda meridiana avrebbe zittito le campane che gli rubavano il sonno. Non potendo dormire, Franco mandò giù un bicchiere d’aglianico, mise il gallo nel mirino della sua doppietta e fece fuoco. Il rumore svegliò Capo di Lupo e Cuore di Cane che senza nemmeno un dolore da dividere in due, avevano aperto una casa-famiglia per il randagismo e Franco venne denunciato alla LIPU. Visite e perizie mediche ne confermarono tuttavia lo stato di stress causato dalla mancanza di sonno e Franco la fece franca. L’assoluzione rimata gli diede l’ispirazione e gli stornelli divennero poesie. Quando gli mancava la rima, Franco beveva un bicchiere di aglianico e andava a capo.

L’aglianico glielo aveva lasciato in eredità il padre, un omone vestito di nero come i contadini del sud che i fotografi cercano tra i centri commerciali e le fabbriche dei piani di insediamento produttivi e a volte trovano, illudendo che il tempo si sia fermato. Il tempo invece è scappato via e di Luigi rimane solo un’immagine virata al nero di seppia. Luigi il nero di seppia non sapeva cosa fosse, sapeva di aglianico e provolone e sapeva di essere vivo, di avere una moglie ammalata che gli sarebbe sopravvissuta e tre figli da sfamare e questo gli bastava. La moglie se ne stava immobile, nera e rinsecchita, seduta su una sedia di vimini sfondata dall’altorilievo del suo sedere, davanti ad un focolare spento a raccontare storie che nessuno ha il tempo di ascoltare. Luigi se ne stava immobile di fronte al cavalletto di Cosimo Di Giovanni, le mani lungo i fianchi, le labbra chiuse in una smorfia di fastidio ed i calli che avevano spaccato il cuoio delle scarpe e sembravano una montagna da scalare sopra una valle nera di dolore lucido di cromatina testa di moro.

Lucide di secoli erano anche le grandi botti dove Luigi conservava l’aglianico. Prima della vendemmia ci infilava Franco che armato di spazzola e di spatola, aveva il compito di rimuovere i tartrati e di non soffocare. Fino ad otto anni o nove ci hanno infilato anche me. Luigi era mio nonno, la mano che mi accarezzava dopo che le avevo prese da mio padre per qualsiasi cosa meritasse solo una carezza, e la mano che mi spingeva dentro quel budello maleodorante e pastoso di solfati. Prima di soffocare, mi ubriacavo di altri occhi e facevo finta che fosse amore almeno per un paio d’ore. Per evitare quella tortura mi decisi a mettere su peso. Nella fotografia del compleanno dei nove anni, sono già obeso nonostante il bianco e nero e lo sfocato degli anni. C’è mio fratello seduto di fianco e Cinzia in piedi alla mia sinistra. A Cinzia qualche secondo dopo, avrei tagliato un dito mentre provava ad infilarlo nella panna che guarniva la torta.

Cinzia abitava di fronte a mia nonna. Aveva sessant’anni, e non aveva mai avuto un uomo. Oggi, dopo trent’anni, ha sessant’anni, una gobba che attrae più della sua figura nuda dietro le lamelle di una persiana gialla, e non ha mai avuto un uomo che durasse più di qualche notte. Quel dito le serviva. Io non lo sapevo ancora. Lo sapeva Gort, che aveva l’intera collezione dei Postal Market dal 1960 e delle copertine di Cronaca Vera dal 1975, e per punirmi, distrusse i regali che m’avevano fatto. I regali erano un libro da colorare, un camion con il ribaltabile, una sedia da cucito e un set di bicchieri di quelli che oggi regalano alla DECO’ con un euro in più. Io non li prendo mai anche se costano solo un euro in più. Non amo i regali e anzi, ne conservo ricordi che sono sempre una sofferenza. Lo sono ancora più dopo che Francesca mi rimproverò di non aver scartato il regalo che mi aveva preso per Natale. La messa era finita da poco, io l’avevo riaccompagnata a casa e avevo voglia di baciarla e paura che gli zingari che abitavano vicino casa sua uscissero in strada per buttare la spazzatura. Uscivano sempre in due, mi aveva raccontato lei. Uno spingeva una carriola colma di sacchi neri, l’altro illuminava la via con una torcia. A me era sembrata una scena da Blu Notte di Carlo Lucarelli.

La carriola la spingeva Michele. Michele puliva le strade di Casale prima che gli spazzini diventassero operatori ecologici con le ernie discali e le carriole si trasformassero nei camion della TARI. Era un uomo gentilissimo, con una voce esile e rispettosa che quasi si scusava le rare volte che l’ho sentito parlare, minuto e ingobbito dagli anni e dalla moglie. La moglie si chiamava Angiulina. Io a volte la sentivo urlare dalla casa dei miei nonni. Tutti dicevano che era pazza. Io una pazza l’avevo intravista in un film su Canale 21 prima che mio padre mi mandasse a letto per colpa di una scena di nudo su delle scale e prima che la pazzia diventasse una donna alla quale dare conto. Ne ero rimasto terrificato, non so se perché l’attrice provava ad irretire con le sue malie di pizzi e baby doll trasparenti, un bambino che era suo nipote e che aveva all’incirca i miei anni o perché il bambino rincasando, l’aveva trovata sulle scale, nuda, con le cosce socchiuse su qualcosa che non sapevo e cominciava ad attrarmi, ma putrida e ricoperta di sangue. Penso per un silk epil riuscito assai male. Canale 21 prima del porno della notte, quella sera trasmetteva un horror che era un monumento al chubby e all’hairy. Angiulina non era chubby ma immagino fosse hairy come Rosetta, la moglie di zio Riccardo, che per contro aveva una ottava di seno e rasentava il fat prima di diventare ugly and crazy. Angiulina non era crazy. Aveva invece un ventre vorace che Michele, spezzato dalla fatica, non riusciva a soddisfare se non qualche rara volta. Angiulina urlava di voglia come le gatte quando sono in calore, non di pazzia. Michele tornando dalla caccia, l’aveva trovata sotto Masto Peppo, il suo migliore amico, un omone grosso il doppio di lui che faceva il calzolaio e che perciò era esperto di chianelle e mezzesole. Michele non era mai stato innamorato di Angiulina. L’aveva sposata dopo che sua madre era morta perché gli serviva qualcuno che gli facesse trovare la pastasciutta sul tavolo e gli lavasse le due camicie che aveva ed il pantalone della festa, e un paio di volte l’anno la divisa blu di spazzino. Quel poco di affetto al quale le necessità e l’abitudine l’avevano costretto era svanito mano a mano che Angiulina che aveva un male che le divorava la pancia e le riempiva l’armadio, si era sottratta ai lavori domestici e aveva preso a rimproveralo per le poche lire che portava a casa, i cani da caccia che pisciavano sul pavimento e le quaglie e le beccacce che Michele, diceva, le dava da spennare per farle scordare i mal di pancia. Ma una moglie è sempre una moglie anche se è una sola e così pure le corna, e per vendicarsi delle corna e della sola, Michele mise nel mirino della doppietta il culo enorme di Masto Peppo e fece fuoco. Poi legò gli arti di Angiulina al letto e prendendo ad insultarla, la penetrò con le canne del fucile. Angiulina dovette sorprendersi del dolore calibro 12 che la squarciava proprio nel preciso istante in cui il suo ventre la squassava soddisfatto.

Io ero riuscito a farmi largo tra la gente che s’accalcava nell’abitazione a due piani dove Michele e Angiulina abitavano. Michele giaceva riverso a terra, il fucile poco distante dal suo corpo, il cervello che colava dal soffitto. Mio nonno mi coprì gli occhi prima che potessi mettere a fuoco Angiulina. Capii che era morta dall’odore di bruciato nella stanza.

Ci sto lavorando.

Mio nonno mi regalò cinquecento lire per farmi allontanare. Io corsi al bar di Minguccio. Comprai un ghiacciolo al limone per cinquanta lire e spesi il resto giocando a Burger Time. Era festa a Casale. La sera mio padre mi comprò un panino alla bancarella di Mr. Pepper. Io mi guardavo intorno timoroso che Mr. Pickle mi trovasse e mi sparasse al culo con una doppietta. Per difendermi chiesi a mio padre una pistola come quella di Zagor, con il tamburo e l’odore acre di polvere da sparo. Mio padre me ne prese una ad acqua per risparmiare sulle munizioni. Il giorno dopo mentre la ricaricavo alla fontana sopra la chiesa di San Domenico e Francesco, venni punto da un calabrone.

Non amo i regali e anzi, ne conservo ricordi che sono sempre una sofferenza. Tempo fa, tanto tempo fa, perché il tempo va piano ma corre sempre, regalai a mio figlio una ruspa. Era la ruspa che mi aveva regalato mio padre. Non era un regalo quello di mio padre. L’aveva avuta dal rivenditore della Caterpillar quando aveva acquistato una ruspa che non era un giocattolo. Mio padre non faceva regali, non ricordava il mio compleanno, ricordava Natale perché a Natale andava a messa. Faceva parte della generazione dei padri che non avevano tempo. Io faccio parte di quella che di tempo ne ha da vendere grazie ai padri che tempo non ne avevano se non il giorno di Natale. Tempo fa, tanto tempo fa, perché il tempo va piano ma corre sempre, regalai a mio figlio un fucile. Era lo stesso fucile che m’ero costruito con gli assi di legno che mio padre aveva scartato, ma non il giorno del mio compleanno. Avevo anche le bombe a mano, e i pugnali, le pietre e i frammenti dei laterizi con i quali mio padre costruiva le mie parole storte. Le chiamiamo “graste” qua: erano le uniche che facevano rumore quando colpivano il bersaglio, un crack però, non il sock dei pugnali. Per il resto si doveva fare bum con la bocca, e scoprivi che il gioco vale per quel che vi inserisci, per le storie che costruisci, non per quel che vi trovi di confezionato. Tempo fa, tanto tempo fa, perché il tempo va piano ma corre sempre, mio padre mi regalò dei soldatini di plastica, alcuni con una mimetica verde, altri con una mimetica cachi. Poi venne San Michele: ai soldatini di plastica s’aggiunsero gli indiani e i soldati del generale Custer. Combattevano insieme sulle scale di casa provando a mischiare le pagine di storia del sussidiario e, pensando ad una nuova storia, finivano per scriverne una uguale. Il pianerottolo era una pianura, gli scalini una montagna. C’era pure un’astronave con mille lucine colorate, e qualche alieno, un astronauta forse. Gli alieni e gli indiani erano i buoni, gli altri i cattivi. In mezzo, tra gli indiani, gli alieni e gli altri, c’è questo tempo confuso dove si è tutti alieni ma senza una parte certa da recitare. Manca un copione e si va avanti a braccio a seconda dei topic di facebook e della quantità dei like.

Roberto per qualche like in più, è andato a Oliveto Citra. La Madonna gli ha fatto il miracolo di una pelle levigata come quella di un neonato e un paio di occhi nuovi, azzurri come il velo della Vergine e made in Taiwan. Qualcun’altra per qualche like in più, s’è operata di tumore. Me lo raccontava mia madre a cui l’aveva raccontata la cugina della sorella della madre di Luisa, cosa che potrebbe essere indiziaria di una maldicenza giacché la cugina, la sorella e la madre di Luisa hanno litigato per questioni di eredità e c’è quasi scappato il morto e a mia madre che i morti li onora recitando tre volte il Rosario con TV 2000, le maldicenze e le menzogne sono straniere come i profughi che ospitati a Casale per qualche periodo sono andati poi via verso luoghi più attraenti, lasciandoci una quantità abnorme di canotti da smaltire con la raccolta differenziata.

Luisa è sfortunata. Ha avuto un tumore al naso. Ne aveva avuto già uno al seno.”, mi ha detto mamma.

“Si, mà, un tumore bilaterale con metastasi alle labbra”, le ho risposto.


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