
Il teatro
Tenere insieme i pezzi è difficile. Quando ci riesco è solo per fortuna. E’ come in fotografia. Guardi, inquadri, scatti e c’è sempre un palo che disturba. Alcuni hanno provato a cancellarlo con photoshop e sono stati beccati con le mani nella marmellata, facendo una figura assai magra. Al Comune photoshop non ce l’avevano. E se ce l’avevano, non avevano chi lo usasse ché Lino era andato in pensione e Michele aveva l’ansia da mansione superiore. Avevano ammodernato la strada di Santo Leucio, una delle strade che come tentacoli s’inerpicano verso Casale dalla vallata dell’Ufita e avevano dimenticato un palo della luce al centro della carreggiata. Nicola Cadetti, il sindaco, sosteneva che il palo dovesse toglierlo l’Enel. L’Enel sosteneva che la competenza fosse del Comune ché era stato il Comune a costruirgli una strada intorno.
Le competenze a Casale come del resto nel Meridione italiano, sono state un grosso problema da quando i piemontesi hanno parcellizzato il potere baronale. E se fino a qualche decennio addietro il maestro, il sacerdote ed il maresciallo dei carabinieri erano sufficienti al primo grado, all’appello e alla cassazione, con l’istruzione diffusa, l’avvento della Radiotelevisione Italiana e Portobello il grado di litigiosità dei casalesi era cresciuto al punto che c’erano più cause che cornuti. Ci si incazzava per poco, si discuteva per tutto, specialmente per una napoletana non accusata. I giudici popolari che chiudevano in un cerchio pressoché perfetto il tavolo dei giocatori emettevano la sentenza. Il dispositivo veniva stampato sullo scontrino delle Peroni.
A me la Peroni non è mai piaciuta se non d’estate quando aiutavo mio padre a riparare il tetto di casa mentre Azzurra provava a vincere la Coppa America ed Emanuela Orlandi spariva tra le Madonne del Vaticano. Nemmeno le carte mi sono mai piaciute molto. Me le aveva lette una zingara a Napoli dicendomi che a trentacinque sarei diventato miliardario. Stavo con Wanda allora. Wanda era un progetto del quale io non sapevo molto. Io leggevo Kerouac, lei disegnava la strada.
“Quando diventero’ grande saro’ famoso saro’ pieno di grana, tornero’ qui nel mio quartiere con una macchina americana”
La macchina americana non l’ho comprata e quanto alla grana, Wanda aspettò che compissi i trentacinque e mi lasciò per un ingegnere di Torino che aveva una macchinona, una villa al mare e una casa in montagna. L’ultima volta che l’ho vista, sorrideva. Aveva comprato un nuovo tailleur e un cappotto in saldo a 1600 euri.Io ero in partenza per Londra. Mi scrisse un messaggio. Diceva che ci somigliavamo.
“Si, due gocce d’acqua. Tu sei Vita Snella, io la prima che capita”, le risposi.
Io mi sono chiesto il motivo dell’anagrafe. Perché trentacinque anni e non quarantacinque o cinquant’anni o l’anno che verrà? Una risposta non me la sono ancora data ché mi sono sbattezzato ma non credo che ogni cosa capiti per caso. In ogni caso a trentacinque anni la dritta via era smarrita. Per superare lo shock di non essere diventato miliardario o forse per ritrovare una strada che rischiava a volte di deragliarmi, mi iscrissi a scuola di chitarra.
A scuola di chitarra conobbi Pina. Pina faceva la segretaria e già questo segnava un punto a suo favore. Pina sembrava una ragazza onesta e assai dolce. Indossava un vestito nero troppo stretto e corto per essere stata la prima cosa che gli era capitata. Quando si alzò dalla scrivania per prendere un faldone dalla libreria che aveva alle spalle issandosi sui tacchi, pensai che forse le carte della zingara facevano riferimento ad un tesoro che non si misura con i soldi. Pina era un tesoro. Era in analisi per una lieve forma di depressione che curava dicendomi che ero vecchio e di fumare per sentirmi giovane o evitare una conversazione che diventava ogni volta un fastidio. Molte delle donne che ho amato erano in cura per qualche forma di depressione. Qualcun’altra ci è finita dopo che ci siamo lasciati. Pina aveva in più il fatto che fosse miope. Ne ho avuto la certezza la prima volta che provammo a fare all’amore. Accarezzandole le gambe e le cosce le mie mani attraversarono numerevoli volte il deserto e la giungla più profonda.
“Nella giungla dovrai stare finche un 5 o un 8 non compare”, mi disse.
“Ti manca poco per arrivare, ora la terra si mette a tremare”, le risposi.
Per colpa della terra che tremava o della miopia, Pina rovesciò la Tennent’s Super sopra il tavolo del soggiorno. Il tavolo era di ciliegio. E’ rimasto macchiato. Ogni tanto guardo quella macchia e penso che non ci siamo più sentiti per non correre il pericolo di sorprenderci feriti. A volte ci si ferisce senza nemmeno averne la consapevolezza. Capita specialmente quando si è vecchi e ogni parola pare troppo o troppo poco.
“Ma perché la fai sempre così complicata?”
“Credo solo perché sono innamorato e non ricordo che mi sia mai capitato in questo modo”
Neanche a Carmine era mai capitato in quel modo. Carmine era emigrato in Inghilterra giovanissimo, prima che io nascessi. In Inghilterra aveva fatto fortuna, se non altro quanto bastava a comprare una macchina americana rosso fiammante, una Pontiac Firebird con un motore V8 da 500 cv, e da sposare Margaret che aveva convinto a seguirlo a Casale parlandole del té alla menta e chicherchia e dei pasticcini di compa Nicola. Carmine fumava due pacchetti di Gauloises Caporal al giorno e ha finito per trovare la libertà promessa dai francesi in un cancro ai polmoni. Margaret gli è sopravvissuta. Ha venduto la Pontiac e con i soldi si è pagata la messa in piega e la tristezza della vecchiaia che a Casale è scritta con i tratti umidi della leucitite dei sanpietrini e i caratteri maiuscoli della salite. La incontro spesso salendo dalle Pagliarole. E’ ancora bella e sempre più sola. A Casale si è spesso soli. Il paese si sta spopolando e morendo a poco a poco.
Qualche mese fa è morto anche Michele. E’ stata una morte che mi ha ferito. Inutile piangere. Si nasce e si muore da soli. Michele era solo da parecchio tempo. Era rimasto solo durante la Seconda Guerra Mondiale quando sopra il tetto di casa sua piovvero due americani che i tedeschi avevano abbattuto con la mitraglia. Michele la mitraglia non ce l’aveva ma aveva la doppietta. Urlò agli americani di scendere dal tetto ché il tetto era fraceto. In realtà erano fraciti gli assi di legno del solaio ma gli americani lo ignoravano. Gli americani il mondo lo guardano dall’alto in basso. I press this button u go boom. Michele fece boom tirando il grilletto. Tirare il grilletto non è come premere un bottone. Michele venne arrestato con l’accusa di omicidio volontario. In galera perse mezza gamba e la parola. Quando tornò a Casale rifece il tetto ma non si rifece una vita. Restò immobile sopra una sedia a dondolo mezza sfondata. I vicini gli portavano da mangiare due volte al giorno e a turno, gli pulivano la casa. C’era la cortina di ferro allora e le poche badanti locali erano vecchie e avevano i baffi appena meno lunghi di quelli di Michele ma più curati. Le cose non cambiarono nemmeno dopo che il muro di Berlino cadde e a Casale arrivarono le rumene con gli occhi chiari, i capelli scuri e il crocefisso tra le tette. A Casale le abitudini sono più durature e resistenti del comunismo e solo di recente hanno preso a cambiare con una velocità maggiore. Credo che sia stato merito del crocefisso tra le tette.
Il crocefisso tra le tette ce l’aveva pure Blanka. Blanka era polacca. I polacchi sono arrivati a Casale dopo i rumeni. I rumeni avevano il vantaggio della lingua. Blanka la lingua la sapeva usare. Parlava un italiano migliore di molti italiani e non ebbe difficoltà a farsi mettere incinta da Roberto. Ebbero una figlia, poi un figlio. Roberto beveva e quando beveva menava lei e il figlio.
Non so che c’avesse trovato Blanka in Roberto tranne che i figli. Forse c’entra un poco l’educazione patriarcale. Per i padri, la figlia femmina deve sposare un qualche principe azzurro, pure assi sbiadito come il vicino che ha la casa di proprietà e un ettaro di terra a Le Peraine, o crocifiggersi sotto un velo monacale ché pure Cristo aveva azzurri se non il mantello, quantomeno gli occhi. Blanka era venuta in Italia un po’ perché aveva studiato italiano all’Università, un po’ perché in Italia Wojtyła s’era trovato bene al punto da essere fatto Papa, molto perché credeva nella favole dei centri commerciali. Avete mai visitato un centro commerciale? Certo che si, che domanda stupida.
“Perché non la smetti di fare domande?
“No, non smettere”
Nei centri commerciali è scritta la legge dell’uomo e il destino delle donne. Se l’indizio è nei negozi di abbigliamento, la prova è nel reparto “bambine” dei negozi di giocattoli. I giocattoli li hanno scelti gli uomini, uomini che avevano scordato di essere padri. A Benevento ne ho visto uno che all’immaginario sessista e agli stereotipi mancava solo un cazzo di gomma. Blanka se ne era innamorata. Dopo che il Muro era caduto e i centri commerciali avevano cominciato a riempire la periferia di Krakovia, aveva pensato di venire in Italia a cercare il suo principe azzurro e per qualche strano caso, era capitata a Casale. A Casale principi non ce n’erano, c’erano solo conti che non tornano.
Con Blanka ballammo una notte tra i tavoli di un pub. Io ero ubriaco abbastanza per provare un brisé mentre in realtà avevo bisogno di pisciare via Wanda e di mettere a fuoco il rhum. Quando tornai dal bagno, Blanka era tornata in Polonia portandosi dietro i figli. Roberto era stato eletto al soglio pontificio nel mese di luglio. I casalesi avevano versato prima l’acconto, poi il saldo.
Roberto prima di fare il Papa di un giorno di mezza estate, faceva il maestro elementare. A Casale fare il maestro elementare era l’alternativa possibile alla scelta fra il rimanere cafone, il farsi prete, o il servire la Patria nell’Arma dei Carabinieri. Dopo la guerra, i cafoni venivano forniti dall’Amministrazione Comunale della divisa dei cafoni che ben vestito dee andar ciascuno, secondo la sua condizione, e secondo la sua età; perciocché, altrimenti facendo, pare, che egli sprezzi la gente.
“Il Galateo lo si trova in rete. E’ d’una noia che viene voglia di scriverti e ridere un poco”
A Casale la divisa della festa e delle processioni dei cafoni si componeva di giacca, panciotto e pantaloni di fustagno d’un colore che faceva pendant con quello della mani e della materia lavorata, e d’una camicia bianca con collo a cinturino che, perso presto il candore del bucato, finiva per somigliare ad un nodo scorsoio stretto attorno al collo dei malcapitati. Quella da lavoro era di rista e nera, e non contemplava il panciotto se non in qualche fotografia di qualche fotografo che a forza di cercare il Sud finisce sempre per trovarlo; la camicia era la stessa ma aveva un nodo scorsoio assai più stretto. Sarà stato per evitare l’impiccagione che molti a Casale scelsero di salire allo Schettini di Frigento o di passare qualche anno nei seminari cattolici, per conseguire il diploma da maestro, imparare ad annodare la zoca e scrivere una piece teatrale.