
L’ultima cena
La sfogliata formaggio e pere non l’avevo mai mangiata prima di conoscere Lina. Ci eravamo conosciuti ad un compleanno di un bambino, figlio di amici comuni. I compleanni dei bambini, da parecchi anni, sono diventati una delle occasioni in cui i padri e le madri chiedono scusa ai figli per una vita e un mondo che vanno sempre di corsa, ed uno dei campi di battaglia sui quali si misurano le fortune familiari: sarà per questo che i compleanni hanno nei gonfiabili una delle varianti più frequenti. La cosa buona dei compleanni sono gli amici che rivedi, quel che ne resta almeno, e le animatrici. Lina nel tempo libero faceva l’animatrice, ma non quelle con le sneakers e i jeans attillati: Lina amava i tacchi e i vestiti eleganti. La prima volta che mi invitò a cena aveva approntato la tavola con una tovaglia di cotone ricamata con le sue iniziali, sottopiatti in cristallo, piatti in ceramica con bordo verde, posate con manici verdi, bicchieri in cristallo con calice verde, centrotavola floreale con foglie di cavolo, tulipani e rose gialle, e due candelabri alle estremità. C’era poca luce: non notai l’aglio che Lina aveva dimenticato nei pici all’aglione che aveva servito dopo un’ora buona di antipasti. Io sono allergico all’aglio. Ebbi una reazione allergica e mi gonfiai tutto. Lina rideva, sperando che il gonfiore durasse abbastanza a lungo. Lina aveva una sessualità strabordante. Somigliava alla zia, che era stata la ragazza di mio padre prima che mia madre scegliesse tra la tonaca monacale ed il matrimonio.
Mio padre mi raccontava che la zia di Lina, Errica, aveva una voce insopportabilmente maschile: l’aveva lasciata per questo, diceva. A me sembrava una scusa. Credo che lei fosse arrivata semplicemente troppo presto. Ci sono donne che arrivano presto, quando la vita che si ha dentro è troppa, e a volte lasciano immagini, o ombre che non togli più dalla testa, e altre che arrivano tardi, in un bar un sabato sera, quando il cuore è già stato ferito, e ha cicatrici che le mani d’una donna possono solo scavare. Errica era in anticipo di diversi anni. A Don Giuseppe, che mio padre lo conosceva bene, parve poco credibile che Errica gli chiedesse di provvedere alle pubblicazione di rito per la celebrazione del matrimonio accompagnata dai fratelli, e senza che mio padre fosse presente. Mio padre venne convocato in sagrestia, Errica emigrò in America dopo un matrimonio concluso per procura.
Lina ad ogni modo era arrivata in un momento in cui avevo fame. Mi prese la mano e mi disse: “vieni che ti mostro una storia”. Amo le storie: sono il cibo che preferisco, specialmente quando hanno una zona in penombra come le canzoni e le fotografie, le righe vergini di un foglio da riempire, e buona fortuna. E così mi sono lasciato guidare, e sono finito al centro di una sala da pranzo, e di una famiglia, di un posto dove tornare e sentirsi a casa. Me ne innamorai, ma tenendo un piede fuori la porta, e dentro la bottega di Hamlin. Non si tratta di egoismo o di qualcosa che ha a che fare con la maturità emotiva, e la lealtà, ma del fascino di Safarà, una parola araba che significa esplorare o scoprire.
Safarà è gestita appunto da Hamlin. Hamlin è un vecchio rugoso, con una giacca del nero che vedi l’estate tra le pale eoliche di Rocca, ed una camicia del bianco delle lenzuola del letto dove accompagni la tua donna quando rientri prima perché ti mancano i suoi occhi e le mani. Ha la polvere addosso, e non perché sia sporco: gli si è posata sopra viaggiando, e lui la conserva gelosamente come il sergente Michael Horvath, che dopo le riprese di Salvate il Soldato Ryan ricominciò ad avere problemi con la droga. C’è sempre bisogno di un nuovo film, di una dose quotidiana di sogni da spararsi nelle orecchie e negli occhi, e Safarà ha il catalogo completo di tutti i film e i sogni che una vita consente.
“Beh, non è un segreto, ci sono stato un paio di volte…Io non lo so piccola, forse ci sei stata anche tu.“
Lina non c’era stata. E soprattutto Hamlin, e i vecchi in genere, la terrorizzavano. Sarà stato per quella che prima del coronavirus era solo un realtà scientifica, e poi divenne la nostra seconda pelle, la consapevolezza che i vecchi muoiono. L’immagino come un concerto: hai vissuto tutte le storie della scaletta, c’è stato pure il bis, e sai che tra un momento le luci si spegneranno e tutto sarà finito: è ora di tornare a casa, ma c’è qualcosa che ti disturba.
“Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma mi ha disturbato.”
Pensi alla scaletta: c’è una grande responsabilità nello scegliere la scaletta di un concerto. Non si tratta di mettere delle canzoni una dietro l’altra, ma di tracciare una direzione, di scrivere l’intera storia: la mia non parlava di tornare a casa per restarci. E te ne vai con rabbia. Penso che sia la stessa rabbia di chi resta senza sapere che vestito indossa suo padre nella bara, guardando un camion che lo porta via. A mio padre misi uno dei miei: era diventato talmente secco che sembrava facesse uno di quei corsi in palestra che hanno nomi intraducibili in italiano, nati in qualche studio di marketing. Invece mio padre era secco di malattia e di brama di vita.
Mio padre a casa ci stava poco. Io ho imparato a starci di più grazie a lui che mi ha dato la voce, ed ai miei figli. Ai miei figli racconto le storie che mio padre ha reso possibile. Mio padre diceva a mia madre: “Mari’ vado a gira’ la machina”, e in quel nome, Mari’, c’era il senso della famiglia e la promessa di un ritorno. Io dopo l’ultima cena dissi che andavo a prendere le sigarette. E’ cosi che immagino l’ultima cena.
“Un velo di cipria sulle labbra e il rossetto terrà fino a sera“
E’ cosi che immagino l’ultima cena. Quando lo dissi a Don Antonio Mellito restò scristianuto: il corsivo, questa volta, é tutto mio. Il rapporto con Dio continua ad essere problematico. Non so verso dove sto veleggiando, magari verso Vega, o la spiaggia di Pensacola, ma c’é mare grosso: sono sballottato tra le onde. Quando penso di farcela Dio è una presenza ingombrante, come le donne, che a bordo portano sfortuna perché distraggono i marinai, specialmente quelle con gli occhi scuri come la notte, e una stella polare al centro che ammalia come la voce di Patti Sciaffa. Ma, se gli anni mi hanno irrobustito, da qualche parte resta traccia di quel bambino che era stato rimproverato da suor Teresa: prego, e intanto suor Teresa la mando a quel paese. E sono punto e accapo. Dopo essere andato accapo troppe volte mi sbattezzai: non mi sembrava corretto che tra Dio e quel cielo che amo per contenere tutte le storie di tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, il primo fosse favorito dall’educazione, dall’abitudine di farsi la croce a tavola come mi aveva insegnato mio nonno, e di segnarsi passando davanti alle cappelle dei crocicchi, e al cimitero. Qualcuno pensa che c’entri mio padre. Io mi arrabbio. C’entrano Tolstoj, che mi voleva prete, e Nietzsche che mi ha spinto tra le braccia di Sagan.
Le braccia di Don Antonio non mi piacevano. Quando le allargava come un povero Cristo sulla croce a me sembrava Lazzaro, uno che si pente abbracciando l’unica speranza che gli è rimasta, la vita eterna. E io non volevo vivere in eterno, cantando cori come Perpetua prima della tracheotomia e nonostante quella, o contemplando Ananke, ma continuare a chiedere a Dio la gentilezza, e di rubacchiare un tantino di gioia in questo crudele uomo mangia uomo e inutile e buio caos, e un compagno infine, che non mi accechi lungo il viaggio, e mi racconti qualche storia di cui innamorarsi per un poco.
Con don Antonio, io e un paio di amici organizzammo la Via Crucis. Non so che edizione sarà quella del prossimo anno, manco se si terrà a dire il vero. La pandemia e la guerra civile sono stati sufficienti alla Via Crucis. Io, in ogni caso, interpretavo Caifa: mi sono sempre sentito insufficiente a fare Gesú Cristo salvo che con la messa in piega. Don Antonio invece voleva fare il Papa. Lo aveva rivelato quando, a undici anni, inginocchiato in mezzo alla strada, aveva fermato la processione dell’Assunta per un mistero gaudioso: “fammi Papa”, sussurrava mentre veniva trascinato via a forza dagli anziani delle confraternite che avevano fretta di tornare a casa, cenare e salire ‘nanzi a l’Angelo per la festa. Chi ricorda quella scena dice che Don Antonio sembrava un soldato ferito sul campo di battaglia da una pioggia di noccioline americane e finito dai tatuni che a Casale della festa sono il simbolo.
Don Antonio il fisico per fare l’astronauta non ce l’aveva. E il Papa, nonostante le sue voglie, lo fece Roberto, che per l’ascesa al soglio papale scelse il nome di Federico I. E non per la barba rossa. Che brutta cosa, fu il coronavirus: qualche volta ho pensato che fosse la punizione di Dio, non per la pedofilia dei preti, ed il fascismo stupido del resto, i vostri omega 3 e il tapis roulant e l’elettrocardiogramma e la mammografia e la risonanza pelvica e…, oh mio dio la…la…colonscopia, e …avanti con un’altra generazione di idioti i quali vi diranno tutto sulla vita e decideranno per voi quello che è appropriato perché schiavi di quella speranza di immortalità, ma proprio per l’insopportabile trash di quella processione con la quale i Marta Sui Tubi accompagnarono Roberto al soglio pontificio: io in ogni caso, non avrei scelto il trattore. Il trattore è banale, assai meglio lo trerrote.
Roberto non usò il trerrote per mettersi al riparo dai casalesi inferociti: si riparò nel Comune che gli aveva pure pagato la festa e venne accompagnato a casa con l’automobile di rappresentanza, riparato dentro la cella frigorifera che era stata approntata per gli spostamenti del sindaco.
“Finché puoi ridere, aspetta; perché il riso salva la vita, la rende sopportabile“