Ombre Gialle

Il bar di Savino

Il bar di Savino aveva una tettoia ricoperta da una vegetazione disordinata, qualche pianta rampicante, o una vite forse, e due ante di legno verniciate di verde per il pendant, e perennemente aperte alle quali erano affisse le insegne dei gelati; a destra c’era il jukebox che fungeva da bastone all’attesa di Savino. E’ un’immagine composita di due fotografie, una in bianco e nero, l’altra a colori, e di qualche ricordo, il fotogramma di un tavolino di ferro smaltato di bianco, e quello di una una striscia di sabbia per le bocce dove ricordo mio padre in chissà quale istante della nostra vita. Era festa, sicuramente. I giorni di festa avevano un’aura particolare. Sembrava che la luce non volesse tramontare, come in un villaggio di qualche provincia scandinava che confina con il bosco di conifere ed il circolo polare d’artico, con i folletti sulle giostre a catene e i nani nei giardini.

Qualcuno i nani nel giardino di casa li aveva messi davvero. Era una di quelle case costruite con i soldi che avevano ridisegnato Casale dopo il terremoto del 1962, un edificio squadrato con una porta, e due finestre in prospettiva d’angolo, il sole dietro e il cielo azzurro e ruvido. Quando il sole tramontava, e i casalesi si riunivano intorno al crepitio della televisione, il vecchio disegno si animava con il profilo di una processione di rondini, un nespolo, una vedova in scialle nero, e un vecchio che indossava la giacca come la indossano i vecchi. I disegni delle scuole medie avevano il difetto delle repliche: si replicava il Mezzogiorno, la devozione per un luogo perennemente sospeso tra la bellezza e la desolazione, un riparo e una gabbia allo stesso tempo. I colori erano quelli delle polaroid, sfumati, imprecisi tra la speranza ed il collasso: oggi sembrerebbe un difetto, un errore nel flusso continuo di perfezione che il mondo ci propina, e che ci nutre.

Nei miei disegni la vedova in scialle nero aveva il profilo di Aldonza. Aldonza si materializzava solo di sera. Durante il giorno passava il tempo a segare le sbarre della prigione della sua testa, reali e immaginate come quelle di chi ha un buco nero dentro. A poco a poco prese a rischiarare la notte, e a brillar nel cielo del mattino come una stella che muore e morendo diventa più bella. Lei provava a non spegnersi, troppo giovane per capire che la vita è un perenne rincorrersi di luci e ombre.

Mi scrisse una lettera qualche anno fa giusto per poter dire “hey, io sento questo, lo senti anche tu?”. Lo sentivo anch’io, e lo sento ancora anche quando non trovo più la strada, e mi sembra di rischiare la sterilità di giorni segnati dal tic toc della performance, il lavoro, la casa, l’auto, qualche like, e qualche parola storta come un certificato di esistenza in vita, e la prostata infine.

Adonza era la migliore medicina per la prostata. Aveva gli occhi neri, luminosi come il Mezzogiono, grandi come uno scrigno vellutato di luna che conserva due perle tristi. Quando beveva gli occhi si illuminavano d’amore, di voglia, di vita, la stessa voglia che io, salendo dalle Pagliarole, mi trascinavo dietro come il macigno al quale ero incatenato. Si diventava meno cauti, e si finiva per guardare il cielo in veranda con la puzza delle fumo delle sigarette che sembrava disegnare un’aurora boreale, e quella del bagno dove ogni tanto qualcuno andava a pisciare la Peroni del tressette con il morto che a Casale si gioca in quattro. Il quarto ci guardava sempre con la malizia di chi pensa di aver capito tutto, e ci tiene a fartelo sapere: aveva gli occhi come due cani che puntano la preda nascosta nel profondo del cuore. Io sorridevo. Adonza mi tirava a se, e mi baciava nascosta da quella siepe che separava due mondi, e i nostri, che mi inorgogliva e mi impauriva come i nani di cui avvertivo gli sguardi curiosi e divertiti.

“È sfiancante, certo, ma tu materializza le cose deprimenti in tanti cassetti semichiusi e pian piano, un colpo d’anca , e li chiudi tutti: quelli si riaprono da soli certe volte, quindi tu se serve dai pure un giro di chiave e non ti sbagli. I cassetti devono rimanere aperti solo se dentro ci sono i sogni”.

“Ti amo”, aggiunse, “Potremmo fare due passi e potresti baciarmi sulla veranda”

“Meglio sulle labbra”, suggerii mentre la ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e seven up.

A me non pareva vero baciarla. E non mi pareva vero quando mi disse che voleva sposarmi. Ci sposammo in un giorno di ottobre. In un cassetto semichiuso trovai due vecchi biglietti per Machu Pichu. Divorziammo a Cuzco. Adonza aveva piedi troppo grossi per starle dietro, e io una protesi nell’anca.

La protesi me la sono procurata in bici, cadendo rovinosamente in una curva per colpa del chiacchiericcio di due donne ferme sul pettegolezzo fresco di giornata. Oggi il pettegolezzo invecchia prima, portato in una piazza assolata e deserta da diecimila, centomila mani che s’affannano a scriverne, e se ne ha bisogno di uno nuovo ad ogni ora: quelli vecchi diventano polpette di carta appallottolata che il vento porta via, insieme alla polvere e all’afrore della polvere da sparo.

“Metti giù il fucile e tirati su i pantaloni!”, mi diceva mio padre quando trasformavo la sala da pranzo nel set di un western. Si litigava per tutto, e sempre per mille lire, per il pugno di dollari che sembra poterti cambiare la vita, e invece te la ruba.

Mio padre, per quel pugno di dollari, rincasava tardissimo, lavava via il sudore e la polvere del lavoro, e andava a “girare la macchina”, diceva. Ci metteva tutta la sera a girarla, e quando tornava mi portava spesso un boero, quel cioccolatino ripieno di una ciliegia e di maraschino o cherry che era il premio che gli era consentito dalla saggezza della terra. Chi con la terra non aveva mai avuto a che fare non giocava a scopa o tressette, ma a poker. E a poker qualcuno c’ha rimesso la casa, e l’anima.

Nella lingua inglese ci sono due parole per indicare la casa: house che individua la costruzione fisica, l’edificio, e home con la quale ci si riferisce agli affetti, all’anima. Per gli inglesi le due cose possono essere tenute separate. Per gli italiani, specie nel Meridione, quella separazione é innaturale, e quando necessaria in ragione del lavoro o di altra vicenda , diventa infine una ferita mai del tutto rimarginata: la casa è il primo confine che si conosce, e la prima esperienza di un dentro e di un fuori di cui si ha coscienza. Costruire quella casa, una famiglia che fosse autenticamente sua, è stato uno dei sogni che mio padre ha realizzato. Per festeggiarlo mise una bandiera italiana sul tetto. É una abitudine che quando ero poco più di un bambino era assai diffusa, e che ora si è quasi persa del tutto giacché case se ne costruiscono meno, e le bandiere nazionali sono state consumate dai tarli per la crisi del calcio italiano e della nazionale che ha smesso di farci sentire italiani.

Quella bandiera la usammo la sera dell’11 luglio 1982. Mio padre era andato a Roma per accompagnare la sorella in aeroporto, io, non vedendolo tornare, da mio zio per la partita. Mi telefonò pochi minuti prima del fischio di inizio della partita dicendomi di tornare a casa poiché “certi momenti un padre ed un figlio li devono vivere insieme”. Il giorno dopo mi chiese di andare in edicola a comprare il Corriere dello Sport. Ce l’ho ancora, insieme al Corriere dello Sport dello scudetto della Roma del 2001 e a Il Mattino della pandemia di coronavirus del 2020. “Il coronavirus sbarca in Italia” titolava Il Mattino il 31 gennaio 2020. Certi momenti un padre ed un figlio li devono vivere insieme, certi altri è meglio che stiano lontani.

A Casale il coronavirus non fece vittime. Venne debellato definitivamente con la processione di san Michele del 29 settembre, grazie alle onde sonore dei salmi in onore dell’arcangelo. San Michele a Casale è oggetto di una venerazione che non ha eguali nel pantheon cristiano, e che è diventata un’esasperazione la sera del 23 novembre 1980, quando ci si accorse che il sisma che devastò l’Irpinia e abbatté la bellissima abbazia che custodiva la teca del santo, aveva lasciato questa miracolosamente intatta: quella sera nel chiaroscuro della Luna, tra gli enormi parallelepipedi di pietra delle rovine dell’abbazia San Michele, dritto, luccicante nelle sue vesti dorate, sembrava l’unica certezza rimasta nell’esercizio provvisorio della vita, al punto che la costrizione della fede nel prefabbricato di zinco degli anni successivi, e nel gelo di un inverno che sembrava non avere fine, fu vissuta non con quella rassegnazione che è propria degli sconfitti, ma con la fiducia degli innamorati.

La nuova chiesa venne presentata una domenica di primavera in piazza Michele Aufiero: un plastico di legno intorno al quale giravo come se fosse l’Arcadia di Capitan Harlock, vedendo due enormi propulsori posti sotto il castello di prua, e le torrette dei cannoni al posto dei campanili dai quali sparare Ave e Gloria contro le mazoniane e Conan il Barbaro, e che non lasciava certo presagire l’edificio che si sarebbe costruito, una chiesa ispirata al Drive In di Antonio Ricci e alle paillettes e lustrini di Sanremo. Sarà per questo che Gianfranco D’Angelo dopo la morte di Has Fidanken, e dopo aver preso i voti ha eletto Casale come luogo del suo sacerdozio. Enrico Beruschi invece dopo aver progettato la nuova chiesa di San Michele per sfuggire alla rabbia dei casalesi ha cercato asilo alla Basilica Santuario Parrocchia “Madre di Dio Incoronata”. L’ho riconosciuto per il papillon che faceva capolino dal saio: “Cusa l’è ches chi?”, gli ho chiesto.

“Ma come, ti ho creato l’atmosfera col formaggio e con la pera, ed ancora mi domandi cusa l’è ches chi?”


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