Ombre Gialle

Il circo di Rosetta.

Ma tu guarda dopo la saùna che ricordo che me dovevo andà a sceje. Il flusso di coscienza a volte trova delle resistenze. Spesso si tratta di qualche misura di affetto che pretende una pausa, il tempo di trovare le parole, il pennello e i colori adatti. “I first met Dean not long after my dad died…”. Scrivevo già prima che mio padre morisse. La morte ha reso il piacere una necessità. Certe morti, quelle che durano anni, strappano via qualcosa, la fiducia se non altro. E scrivere è un modo per restare a galla. Ne conosco pure altri. Qualche volta ho provato a restare a galla in una bottiglia di rum, finendo irrimediabilmente per affogarci. Invece dovrei chiudermi in uno scantinato, e scrivere senza pensare a chi leggerà le mie parole storte, lasciare che il fiume in piena di parole invada lo schermo. “Nessun freno, le mani devono procedere pari passo con la mente. Come nel jazz, per le note, anche nella scrittura le lettere devono essere scandite in modo fluido e senza incertezze, una jam session di parole”. Come Thom Yorke in Fake Plastic Tree, tratteggiando “uno scherzo che non è uno scherzo“, ma un modo per parlare di questi anni, di luoghi e persone che sono stati per anni chiusi in uno schedario, a volte solo accennati, altre volte definiti interamente. Si tratta allora di aggiungere e di sottrarre per evitare di dire poco o troppo, di mischiare le carte, in modo che ognuno possa evitar di guardare in faccia Medusa.

Rosetta il circo lo aveva messo su per noia. Io nel circo di Rosetta ci sono cresciuto. Lo spettacolo iniziava alle 18, dopo i compiti di scuola. Io e Marco interpretavamo due pagliacci in sketch surreali che trasformavano il nostro improbabile insegnante di lettere in un indomito stallone, irsuto, i radi capelli impomatati, i denti gialli, la pelle di pergamena, e la forfora che gli copriva come neve la criniera scurissima, che correva dietro alle racchie del paese, ingravidandole, dando vita ad un mondo che assomigliava alla pintura nigra di Goya, e un nostro compagno di classe svizzero nel Cristo di Piero della Francesca, risorto e ancora morto, crocefisso nuovamente da un mondo che dorme indifferente e armato, perché i miracoli non esistono ma nel caso é meglio farsi trovare preparati. Dopo il nostro spettacolo, Claudio Cesare, che il padre aveva chiamato così per mettere a tacere con un nome altisonante le malelingue che lo battezzavano figlio di un vu‘ cumprà, si svestiva da Antonio Inoki, e prendeva a combattere con la sorella intorno ad un telecomando: Claudio Cesare lottava per Tiger Man, la sorella per Veronica Castro. Alle 8 di sera c’era il telegiornale. Rosetta si svegliava dalla pennichella pomeridiana, e scendeva nell’arena per lo spettacolo della Donna Cannone: preparava il caffè e fumava due o tre Linda leggere, fingendo interesse per un mondo che era troppo più grande di Casal Barone per poter essere inteso. Alle 9 di sera all’ingresso del circo si presentava mia madre. Usciva di casa coprendosi con uno scialle di lana che le copriva il capo, e sembrava una madonna addolorata, sull’uscio, per quel figlio che le cadeva ai piedi spegnendo ogni volta la Marlboro nel palmo delle mani.

Sará per le stimmate delle Marlboro che a 19 anni maturai l’idea di farmi prete. Presi a frequentare la Chiesa, a pregare prima di consumare i pasti, e a digiunare il mercoledì ed il sabato, salvo però quando mia madre preparava le linguine con quel sugo di pomodoro leggermente piccante, nulla più che un friccico nel core, gnente de straordinario, è robba der paese nostro, che sa fare lei, e che fa invidia alla Madonna.

Ho avuto un’educazione cattolica. Ricordo ancora, pure se le immagini sono assai sfocate, me i e i miei genitori seduti nei banchi duri della chiesa, di noce scura, segnati dall’usura della fede, e l’odore d’incenso che ogni volta rende quel ricordo più saturo e contrastato. È solo un momento. Il terremoto ha sepolto quelle fotografie sotto le macerie, insieme alla chiesa di San Michele. A San Michele mi vestivo da angioletto, la divisa bianco e azzurra, l’elmo, e la spada, e gli schinieri di stagno. Per il resto, le funzioni mi stancavano e, spesso, l’unica distrazione consentita dalla sacralità del luogo e del momento, e dagli scappellotti di mio padre, erano le targhe d’ottone dei banchi poste a memoria di coloro che ne avevano consentito con la loro carità l’acquisto. A chi appartenevano quei nomi? Qual era la loro storia? Cercavo allora d’indovinare, e più che altro costruivo la storia nascosta dietro quella donazione.

Il banco donato da Don Tomasi aveva la targa d’oro. Don Tomasi era stato il podestà del Paese. Era imparentato con i baroni, e quando il Re era stato cacciato dalla Repubblica, aveva sfruttato la parentela nobiliare, e la riverenza dei cafoni per farsi eleggere sindaco. Non era durato tanto. Aveva subito una condanna penale per danni al patrimonio faunistico, e s’era dovuto dimettere. Don Tomasi era appassionato di caccia alla beccaccia. Pare che una domenica lungo il sentiero che da Fontana Menna porta al laghetto dello Truso, avesse sentito un suono che si ripeteva secco e regolare e, incuriosito, si fosse addentrato nel bosco fino ad un enorme albero di castagno dove un uccello stava, a quanto Don Tomasi aveva riferito al pretore di Frigento, provando a porre termine alle sue sofferenze sbattendo la testa ripetutamente ed inutilmente contro la corteccia.

“Avrà sofferto di emicrania”, ipotizzò Don Tommasi un giorno in pretura.

Don Tommasi che era favorevole all’eutanasia gli aveva sparato, ignorando che fosse l’ultimo picchio di Casale.

A Don Tomasi invece non ha sparato nessuno. E’ invecchiato come invecchiano i benestanti, con tanto di riguardo da parte di sorella Morte. E’ morto qualche anno fa per un’infezione polmonare causata dal coronavirus che a Casale fece diverse vittime, durando più che nel resto dello Stato, per il ritardo dell’epidemia nel raggiungere i picchi delle curve del contagio. Il virus è scomparso d’estate, dopo che Don Modesto, il sindaco, decise di prestare ascolto alla popolazione che lo pregava di interessare la LIPU per reintrodurre i volatili.

I volatili a Casale hanno una lunghissima tradizione di devozione. Lo stemma del Paese ha uno storno nel disegno, appollaiato sopra una figura che sembra un tricolle, e assomiglia ad un cactus al punto che lo storno potrebbe ben essere un’aquila, ed il tempo a Casale essere fermo su una mala ora che spiegherebbe tanto di un tempo grigio le cui ore sono i nomi e i soprannomi degli uomini e delle donne che mi sono piaciute. Lo stemma tuttavia venne disegnato prima di Leon Battista Alberti e di Piero della Francesca per cui l’uccello è sovradimensionato. Sarà per questo che i casalesi sono tutti leghisti, e hanno gli avambracci gonfi come Popeye.

Pure io avevo gli avambracci gonfi a diciassette anni. Poi sono cresciuto. A diciassette anni stavo con Olivia. La prima volta che ci avevo parlato era stato di fronte al bar di Savino. Era settembre, il prologo al lungo inverno casalese. Olivia non era quel che si dice una bella ragazza, ma era interessante per il congiuntivo, e per avere un carattere solare, come capita spesso a chi cresce guardando la linea sottile tra il cielo ed il mare, e raramente a chi è diviso dall’infinto da una siepe o da un colle, e da quelli costretto alla malinconia e alla fatica della separazione. Olivia non era casalese, ma a Casale aveva la nonna: ci veniva d’estate e alle feste comandate. Guidava già per essere di qualche anno più grande di me, e con parecchia esperienza in più. Le esperienze in più la rendevano ancora più interessante. Inoltre era un ragazza di classe. La prima volta lo facemmo sul cofano della Mercedes del padre. Dentro il calore era insopportabile, e noi avevamo troppi campari e gin in circolo per temere che qualcuno ci vedesse. Mio padre lo capí subito che c’era qualcosa di nuovo: io pensavo si trattasse della luce che avevo negli occhi. Egli invece aveva osservato mentre uscivo in slip dal bagno il cerchio con le tre punte che avevo stampato sulla schiena.

“Non ti vergogni?”, mi chiese

Io mi vergognavo di essere stato scoperto. A mio padre non sfuggiva niente. Per quanto provassi a tenergli nascosta la mia adolescenza, egli era sempre un passo avanti. Pensavo fosse la scarafoncella, una sorta di strega nera, brutta, e bassa come una vecchia zita di cui parlava mia madre quando scopriva le marachelle dell’infanzia che con mio fratello avevamo provato ad occultare. Ho scoperto poi che si tratta solo di anni, e che anche mio figlio non riesce a tenermi nascosto nulla. Non ci prova spesso: non ha molto di cui possa rimproverargli la vergogna, e sicuramente non la sessualità. Ma allora non ero padre, ma figlio. Ed il rimprovero di mio padre mi fece male. Fu uno dei tanti mattoni con i quali costruimmo il muro che ci ha diviso fino a poco prima che morisse. Mio padre poi lo raccontò a mia madre: me ne resi conto quando mia madre mi convinse della necessità di una confessione dai frati del Santuario della Madonna del Buon Consiglio dei Frati Francescani dell’Immacolata, un nome che è già sufficiente alla penitenza. Ci andai con Giovanna la vigilia di Natale, peccando per tutta la strada che separa Casale dal luogo santo: Giovanna aveva un culo michelangiolesco. Mi rinchiusero in uno sgabuzzino di meno di un metro quadrato nel quale più che inginocchiati si stava incaprettati. Il frate dall’altra parte della grata voleva sapere i dettagli del peccato. A me sembrava strano che l’assoluzione dipendesse dai dettagli, ma mi convinsi avendo intravisto che aveva gli avambracci assai più gonfi dei miei.

Tornati a Casale ci fermammo al bar di Savino. Giovanna era di fronte a me, e mi sorrideva. Non le ero indifferente. E lei aveva un pantalone di velluto bordeaux talmente aderente che fingere indifferenza era una penitenza. Immaginavo tutto, compresa la passione di Cristo alla quale mi pareva di contribuire: mi sarei dovuto confessare di nuovo. Savino mi guardava sorridendo. Sembrava un demone, di quelli che avevo visto nella Bibbia di zi Carmelecchia, pronto a rompere il pavimento e a scaraventarci nella Geenna. Sarà per questo che i terremoti hanno l’epicentro sotto al bar di Savino.


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