
“I always keep a notebook by my bedside, for dreams as well as nighttime thoughts, and I try to have one by the swimming pool or the lakeside or the seashore; swimming too is very productive of thoughts which I must write, especially if they present themselves, as they sometimes do, in the form of whole sentences or paragraphs…But for the most part, I rarely look at the journals I have kept for the greater part of a lifetime. The act of writing is itself enough; it serves to clarify my thoughts and feelings. The act of writing is an integral part of my mental life; ideas emerge, are shaped, in the act of writing. My journals are not written for others, nor do I usually look at them myself, but they are a special, indispensable form of talking to myself. The need to think on paper is not confined to notebooks. It spreads onto the backs of envelopes, menus, whatever scraps of paper are at hand. And I often transcribe quotations I like, writing or typing them on pieces of brightly colored paper and pinning them to a bulletin board.“, scrive Oliver Sacks (https://sunilification.net/libraryofbabel/2015/06/20/oliver-sacks-on-journaling/). Io faccio lo stesso. Mi serve appunto a chiarire pensieri e sentimenti, a modellare le idee che una conversazione, la lettura d’un periodo, una fotografia hanno suggerito, e ad abbozzarne di nuove. “Li pensieri vengono scrivendo” diceva Cornacchia a Bellachioma in quel capolavoro che è “Nell’anno del signore” di Luigi Magni.
Riprendendo qualcuna delle idee abbozzate tra il moleskine e i post-it ho pensato di scrivere ai miei ragazzi due parole sul rapporto OCSE PISA che parla della loro generazione e ne disegna un quadro desolante (https://www.lastampa.it/cronaca/2019/12/04/news/gli-studenti-italiani-fra-i-peggiori-dell-ocse-uno-su-quattro-non-comprende-cio-che-legge-1.38049248). “Secondo questo rapporto, gli studenti italiani di 15 anni hanno competenze scientifiche e di lettura inferiori a quelle che avevano i loro coetanei di dieci anni fa. In particolare, in scienze, hanno ottenuto un punteggio inferiore di 21 punti rispetto ai coetanei dei Paesi Ocse e di 13 punti più basso rispetto alla precedente rilevazione effettuata nel nostro Paese. Uno studente su 4 in Italia non raggiunge il livello base di competenze scientifiche, dato che nei Paesi Ocse è di 1 su 5. Il voto nella lettura è di 476 punti contro la media Ocse di 487, valutazione che posiziona il nostro Paese al 25esimo posto tra i 36 Paesi Ocse. Situazione leggermente migliore in matematica con un punteggio di 487 (nel 2015 era 490) a fronte di una media Ocse di 489. Secondo il rapporto Ocse, uno studente su 4 non raggiunge il livello base di competenze in matematica, con una percentuale che supera il 30% nel Sud Italia. In tutti e tre gli ambiti, la prestazione è stata inferiore a quella di Paesi come Belgio, Francia, Germania, Olanda, Polonia, Slovenia, Svezia e Regno Unito. Importanti, inoltre, i divari territoriali: gli studenti del Nord ottengono in lettura i risultati migliori, mentre quelli del Sud presentano maggiori difficoltà. Importanti anche le differenze tra le tipologie di scuole: gli studenti dei licei ottengono i risultati migliori, seguono quelli degli istituti tecnici ed, infine, quelli degli istituti professionali.”
Ne abbiamo parlato: guardando ai miei ragazzi e alla maggioranza dei loro amici e coetanei mi riesce difficile credere ad un quadro tanto triste. Ma c’è da fidarsi. Quali le cause? Non ho conoscenze specifiche in materia di scuola, di diritto scolastico e di didattica, per poter avere un’opinione compiuta. Mi pare tuttavia che il sentimento diffuso sia quello di una distruzione della scuola pubblica ispirata da politiche neoliberali. Per altro verso, lo stesso rapporto evidenzia le maggiori difficoltà italiane e, nell’ambito del Paese, l’esistenza di differenze territoriali: mi pare possa delinearsi un collegamento tra questo quadro e la crisi, economica e sociale, che in Italia ha colpito più duramente che altrove, e nel Meridione ha assunto le dimensioni del dramma, una relazione che ha altresì la connotazione di un processo di retroazione, positiva quando la politica investe nella formazione, negativa quando si pensa che lo Stato minimo passa anche attraverso la Scuola minima. Ma mi interessava soprattutto tracciare una relazione tra le famiglie e i figli-studenti, tra le risultanze del rapporto OCSE PISA e la considerazione che almeno “il 30% degli italiani è analfabeta di ritorno” (http://www.askanews.it/cultura/2019/01/22/il-30-degli-italiani-%c3%a8-analfabeta-di-ritorno-dati-fondazione-feltrinelli-top10_20190122_171323/). Esistono altri report che parlano di un “49% di analfabeti funzionali”, ma voglio essere ottimista, nonostante i dialoghi e le chat nelle quali sono quotidianamente coinvolto mi suggeriscano che, appunto, l’ottimismo è una scelta antidepressiva.
Qualche tempo fa ero in fila alla cassa di un supermercato. La cassiera chiedeva alla signora che mi precedeva se sua figlia, sedicenne, avesse partecipato alle selezione del Grande Fratello. E’ una questione di modelli. La mia generazione sognava di diventare dottore, ingegnere, astronauta. I Millennials e i Post-Millenials leggono “I Am Football: Zlatan Ibrahimovic” e sognano un futuro con uno share a doppia cifra. E’ vero che la storia insegna che lo spettacolo ha spesso pagato bene, e che si è sempre accompagnato a banchetti sontuosi e belle donne. Ma Asellina che gestiva un’osteria molto frequentata a Pompei, su Via dell’Abbondanza, “sognava per i suoi ragazzi la felicità, ma sapeva che la cosa più importante era impegnarsi per cambiare le cose, dove possibile. Perché i sogni sono una felicità da costruire“.
Ad una delle amiche di mio figlio ho promesso di procurare Idiocracy di Mike Judge, un film pseudo-demenziale che narra con leggerezza l’atrofia cerebrale di questi anni. Le cause di questa atrofia sono varie e complesse, e descritte da ampia letteratura. E’ una complessità pure risalente. In una vecchia intervista Paola Mastrocola, insegnante, scrittrice, vincitrice del Premio Campiello 2004, nota per i suoi giudizi spesso controcorrente nel parlare di scuola, di giovani, di educazione, individua nel ’68 il punto di discrimine tra il prima ed il dopo: “La scuola prima del Sessantotto era pensata per le elite; dopo, invece, è nata la scuola di massa. La scuola di prima era meritocratica; quella dopo non lo è più. Dovendo esprimere un giudizio, il problema è proprio che la scuola dopo il Sessantotto non è più né di classe, né meritocratica. Si sono affondate entrambe le cose, di cui però una, la meritocrazia, era decisamente positiva. Io ho ancora impresso il ricordo di insegnanti di liceo che a fine trimestre chiedevano a noi che voto mettere in pagella. Un atteggiamento come questo implica la distruzione dello studio, del merito e dell’autorità. Tre cose importantissime, che sono cadute proprio dopo il Sessantotto […] Io ho attaccato le conseguenze del messaggio di Don Milani. Credo che quarant’anni fa il libro di don Milani Lettera a un professoressa fosse necessario, e non voglio sminuirlo. La mia polemica è sull’oggi, e su come ancora oggi si segua quel modello, che, secondo, me nemmeno lo stesso Milani seguirebbe più. Le cose sono cambiate, e non ci sono più i figli dei contadini di cui parlava Milani. Noi a scuola abbiamo altri problemi: abbiamo i figli viziati dal nostro benessere, figli a cui abbiamo dato tutto, a cui non abbiamo insegnato nulla e che non studiano più. Figli che non aprono più un libro. Tanto di cappello a quello che ha detto e che ha fatto don Milani, ma adesso i problemi sono altri […] c’è un altro punto del messaggio di don Milani che non è più assolutamente attuale: il fatto che egli dicesse «non studiamo più Foscolo, non insegniamo più l’Iliade del Monti», cioè non facciamo le cose difficili e incomprensibili. Oggi invece bisognerebbe dire esattamente il contrario: «insegniamo le cose difficili e incomprensibili». Oggi, in un clima di appiattimento generale, dobbiamo semmai combattere il linguaggio televisivo, e quindi a maggior ragione far studiare l’Iliade del Monti. Potremmo dire che oggi il Monti è l’antidoto che abbiamo contro la Tv. Tra l’altro, devo anche aggiungere una cosa che constato nella mia esperienza di insegnante: quando insegno l’Iliade del Monti, gli studenti sono tutti molto felici, e la trovano molto più bella di tutte le infinte traduzioni prosaiche che abbiamo fornito loro. Il messaggio quindi è: i ragazzi non sono stupidi, siamo noi che li abbiamo resi stupidi.”
Mi interessano soprattutto due affermazioni. La prima è quella relativa alla distruzione dell’autorità. Il Sessantotto è stato tante cose. Chi lo critica dimentica cosa fosse il nostro Paese in quegli anni. Due racconti brevi aiuteranno a capire.
Nel 1966 Claudia Beltramo Ceppi, Marco De Poli e Marco Sassano vengono denunciati per aver pubblicato su la ‘’Zanzara’’, la rivista degli studenti del liceo Parini di Milano, un’inchiesta sui comportamenti sessuali degli studenti. I responsabili dell’inchiesta vengono denunciati per pubblicazione oscena insieme al preside Daniele Mattalia e la tipografia del giornale. I primi a gridare allo scandalo erano stati gli studenti cattolici pariniani, “che facevano parte di Gioventù studentesca, l’organizzazione cattolica fondata da Don Giussani nel 1954, più tardi confluita in Comunione e Liberazione. Essi denunciarono in un volantino “la gravità dell’offesa recata alla sensibilità e al costume morale comune”. Di recente, nell’ambito delle rievocazioni di quell’avvenimento, Marco Sassano, oggi giornalista, ha ricordato che quell’inchiesta-sondaggio sulla condizione delle donne avveniva in un Italia in cui non c’era il divorzio, non c’era l’aborto, la contraccezione era un tabù, si diventava maggiorenni a 21 anni […] Ma cosa conteneva quell’inchiesta di così tanto grave da smuovere questori, procuratori della Repubblica, il fior fiore degli avvocati e giornalisti finanche stranieri? Nel presentare l’inchiesta “Che cosa pensano le ragazze d’oggi?”, Marco de Poli nell’editoriale denunciava la difficoltà in Italia di discutere dei temi del matrimonio, del lavoro femminile, del sesso, poiché “sopravvivono in larghi strati della popolazione secolari pregiudizi e un moralismo, che è cosa ben diversa da una salda coscienza morale”. Le risposte delle studentesse del Parini risultano illuminanti ed offrono uno spaccato del bisogno diffuso di libertà e di autonomia dalla famiglia e dalle istituzioni quali la scuola non più rinviabile: “Io posso accettare un consiglio da mio padre solo se è motivato e non perché dice che è il padre e basta!”. E un’altra: “L’educazione sessuale nella scuola, e non solo da un punto di vista medico, è assolutamente necessaria per una modifica della mentalità verso moltissimi problemi quali le ragazze madri, i figli illegittimi, ecc. Non vogliamo più un controllo dello stato e dalla società sui problemi del singolo e vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole, a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui, assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità” (http://www.novecento.org/dossier/italia-didattica/i-giovani-ribelli-della-zanzara-e-le-origini-del-68/?print=print). I tre ragazzi vengono sottoposti nell’ufficio del pubblico ministero Pasquale Carcasio a visita medica per accertare che siano capaci di intendere e di volere. La visita serve per la compilazione della scheda prevista per i minori da una legge del 1934. Le domande loro poste durante tale visita vertevano sui loro eventuali rapporti con prostitute, su affezioni veneree eventualmente contratte, mentre venivano fatti osservazioni e commenti sul loro stato di apparente gracilità, con il rilievo che le famiglie poco si curavano di loro, e con accenni ai gravi guai in cui si erano posti con la pubblicazione del giornale studentesco. I ragazzi vengono fatti spogliare: l norme sono quelle fasciste.
“Franca aveva 17 anni e 11 mesi. Era la ragazza più bella di Alcamo, figlia di contadini. Filippo Melodia, nipote di un boss, la voleva per sé. Lei si era promessa a Giuseppe Ruisi, un coetaneo amico di famiglia. Melodia e altri dodici della sua banda bussarono alla porta e rapirono lei e il fratello Mariano, 8 anni. Li portarono in un casolare in campagna. Dopo due giorni lasciarono andare il bambino, dopo sei portarono Franca a casa della sorella di Melodia, in paese. La legge diceva, allora, all’articolo 544 del codice penale, che il matrimonio avrebbe estinto il reato di sequestro di persona e violenza carnale. Reato estinto per la legge, onore riparato per la società. Doveva sposare Melodia, insomma: era scritto. Ma Franca non volle. Fu la prima donna in Italia – in Sicilia – a dire di no alla “paciata”, la pacificazione fra famiglie, e al matrimonio riparatore. Ci fu un processo, lungo, a Trapani. Lei lo affrontò. Un grande giudice, Giovanni Albeggiani. I sequestratori furono tutti condannati. Melodia è morto, ucciso da ignoti con un colpo di lupara, molti anni dopo. Gli altri sono ancora lì, in paese. «Quando li incontro per strada, capita, abbassano lo sguardo. Non fu difficile decidere. Mio padre Bernardo venne a prendermi con la barba lunga di una settimana: non potevo radermi se non c’eri tu, mi disse. Cosa vuoi fare, Franca. Non voglio sposarlo. Va bene: tu metti una mano io ne metto cento. Questa frase mi disse. Basta che tu sia felice, non mi interessa altro. Mi riportò a casa e la fatica grande l’ha fatta lui, non io. È stato lui a sopportare che nessuno lo salutasse più, che gli amici suoi sparissero. La vergogna, il disonore. Lui a testa alta. Voleva solo il bene per me” (https://www.repubblica.it/cronaca/2015/12/27/news/_io_che_50_anni_fa_ho_fatto_la_storia_con_il_mio_no_alle_nozze_riparatrici_-130210807/)
“Volendo riassumere all’osso, probabilmente il Sessantotto è stato fondamentalmente questo: una drammatizzazione-celebrazione collettiva del ripudio del Padre, estrema nei modi ma soprattutto nei tempi, concentrata in uno scorcio di vita individuale e sociale così breve da deflagrare con potenza impressionante. Mai più ripetuta. La gioventù, in virtù di un inedito benessere che preservava dal lavoro e concedeva il lusso o il vizio di pensare, provò ad autodefinirsi, a fissare i punti di una condizione umana nuova e sconosciuta tranne che nella sua ferrea determinazione a discostarsi dai costumi e dalle intenzioni degli adulti”. Cosa resta del Padre? Se lo chiede Massimo Recalcati che, insieme a Lacan, individua due momenti fondamentali del declino del Padre e della sua funzione ideale-normativa nel 1938 e nel 1969, nell’affermazione del Padre-Fuhrer, un padre primordiale e invasato, onnipotente e folle come il Dio del Vecchio Testamento, e nella contestazione giovanile alla società patriarcale che per Lacan è il momento della dissoluzione della Legge della castrazione simbolica, e della fine della possibilità di articolare il desiderio incestuoso del figlio, di controllare e impedire l’esperienza del limite, gli eccessi, sulla quale dissoluzione si innesta il discorso del capitalismo che sfrutta a proprio vantaggio questa mancanza di regola al limite indirizzando quella mancanza verso il consumismo: “voglio tutto e lo voglio adesso”.
La fine del Padre è appunto il venir meno del principio di autorità. Potremmo anche tornare con la memoria a Hagerstrom e Olivecrona, alla dimensione magico-religiosa delle società primordiali, e al sentimento della divinità che si trasforma in un atteggiamento psicologico di coercizione ad agire in un certo modo sorretto dal sentimento dell’utilità della vita associata, e dalla paura della punizione, e finire con Kelsen, e la norma giuridica come sanzione. La sanzione è sufficiente all’autorità? Se la società è qualcosa di ulteriore rispetto all’ordinamento, al governo, temo che la sanzione sia insufficiente. La fine del Padre determina non solo l’atteggiamento verso la Legge, quello che si vede sempre più per strada, ai semafori in particolare, e che nei fatti più eclatanti finisce nella pagine della politica e della cronaca, ma l’atteggiamento verso le Leggi: se la prima si rispetta per paura della sanzione, le seconde, per esserne prive, sono “commentate” come un vezzo da snob. E’ il motivo dell’indifferenza di competenza e curricula. “La scienza non può essere democratica” è uno slogan che ha un significato ben colto da Piero Angela: la velocità della luce non si decide per alzata di mano. Naturalmente come tutti gli slogan ha una grande efficacia nel comunicare un concetto, ma lo semplifica in maniera eccessiva. In realtà la scienza è quanto di più democratico esista, visto che intesa nel suo significato più nobile, quello di conoscenza, è accessibile solo attraverso lo studio, che è una “livella” in grado di porre povero e ricco, potente e umile esattamente sullo stesso piano“, afferma Burioni. E continua: “Non tutti hanno diritto di parola su tutto, nel campo scientifico conta il parere solo di chi ha studiato, non del cittadino comune“, raccontando infine un aneddoto relativo ad un incontro con un gruppo di genitori. “Tra le mamme ce n’era una, appassionata di cucina – ricorda il medico del San Raffaele – Voleva spiegarmi come funzionano gli adiuvanti, allora le feci notare che, mentre io non mi sarei mai permesso di insegnarle come si cucina una lasagna, lei stava invece facendomi una lezione proprio sugli argomenti che insegno ai miei studenti e ai miei colleghi durante lezioni e convegni. Niente da fare“. Il che ovviamente non significa ignorare bias ed euristiche ideologicamente determinate, né significa ignorare la tensione verso la mediocrità di Idiocracy, ma significa affermare con forza che la precomprensione, l’habitus, il complesso di conoscenze, ideologie e fallimenti che ciascuno porta nell’interpretazione euristica di un dato, e che già di per sé è sufficiente a tracciare una linea di discrimine tra ciò che è opinione o fede, e ciò che si propone come scienza, è solo il momento iniziale del processo ermeneutico il cui svolgimento e la cui conclusione in ogni caso non può prescindere da competenze e curricula, e che trova ulteriore sviluppo nella circolarità che si instaura tra soggetto e oggetto. E’ la differenza tra il leggere un testo ponendo ad esso delle domande, e leggerlo avendo già la risposta, meglio, pensando di avere già la risposta. Gadamer ne parlava a proposito dell’esperienza dell’arte, proponendo la differenza tra il puro vedere ed il puro udire e “l’incontro con l’opera d’arte e con il mondo contenuto in essa, che non ci resta estraneo: nel rapporto con l’opera d’arte, infatti, si impara anche a comprendere se stessi”. Troppo complesso?

La complessità è il secondo argomento che dell’intervista di Paola Mastrocola mi “punge”: «insegniamo le cose difficili e incomprensibili». Non penso che Mastracola si riferisse all’ entanglement quantistico che è argomento specialistico al pari degli adiuvanti, al quale non è certo sufficiente la lettura di una pubblicazione. Penso che si riferisse innanzitutto proprio alla complessità necessaria, propedeutica, alla comunicazione e alla comprensione, al linguaggio la cui complessità e ricchezza è funzionale alla formazione di un pensiero complesso e comprensivo, e che per contro nella semplificazione della comunicazione che si osserva a vari livelli, e nell’ambito di diverse esperienze, viene prostituito alla trasformazione dell’uomo in consumatore. Al mercato serve un messaggio semplice, immediatamente fruibile. E’ questa, forse, la ragione del fiorire di tutta una letteratura centrata sull’elogio della semplicità, e dei sentimenti. Semplicità e sentimenti sono veloci. La complessità invece va studiata e compresa, e non ammette se non un lungo periodo: non cogito dunque sono, ma semplicemente cogito, nel senso che non posso smettere di pensare, ed attraverso il pensare determinarmi. “L’essere è il suo tempo”.
Quadrato bianco su fondo bianco di Malevic è semplicissimo. E tuttavia è un’opera in cui sono riassunti duemila anni di storia dell’arte, e duemila anni di storia dell’uomo. E dunque è assai complesso. E’ la complessità di cui spero i miei ragazzi si innamorino intanto che si pongono domande, e intanto che imparano la differenza tra un padre ed un amico. Perché “accadono cose che sono come domande, passa un minuto oppure anni, e poi la vita risponde“.