
Cinzia
Vito faceva il meccanico. Lo chiamavano Garibaldi perché era nato nel Delaware, e a trentun’anni, venuto a Casale per le vacanze insieme al padre casalese, s’era innamorato di Anita, l’aveva corteggiata con il portafogli gonfio di dollari, e sposata il giorno del ringraziamento, o forse per via del barbiglio rosso che gli spuntava appena sopra il collo e pareva un fazzoletto dei mille. Vito era un omone di quattro metri cubi, con la voce di un bambino, un neanderthal buonissimo, democristiano. Non aveva il physique du role del meccanico, ma aveva sicuramente l’abito del democristiano. Essere democristiani dalle mie parti è una questione di pelle. Sono democristiani pure i comunisti, con la maglietta del Che e le scarpe della Nike e il pugno chiuso per il fisting che a Marianne piace tanto. Quanto a Vito a memoria d’uomo nessuno lo ha mai visto senza la sua tuta con la salopette blu e la maglia rossa. Anita, che aveva il senso dell’ironia, raccontava che alla fine della giornata lavorativa, dopo aver fatto a pezzi testate con i pugni, saltato su piccoli funghi e poi gusci di tartarughe, con i soldi che aveva guadagnato Vito comprava dei power-up, due pizze, due birre, un pigiama uguale alla tuta ma intonso, e due palle di fuoco.
“Il secondo livello è roba privata”, diceva Anita, “ma vi assicuro che le palle di fuoco funzionano alla grande”.
Il terzo livello iniziava con Vito che si svegliava prestissimo, all’alba. I vicini non avevano neanche la necessità di mettere la sveglia ché potevano sapere l’ora dal rumore di ferraglia della saracinesca dell’officina, una caverna con il pavimento di terra battuta, e le pareti brune per il grasso, l’olio, e la sporcizia che vi si erano stratificati insieme ad una folla disordinata di chiavi inglesi, chiavi a brucola, cacciaviti, martelli, tronchesi, camere d’aria, copertoni e bestemmie. Vito seduto tra due pile di pneumatici usati, con un grembiule nero sopra le gambe, e la pelle dello stesso colore dell’officina salvo che per il bianco degli occhi e il giallo dei denti, bestemmiava ogni volta che la campana della chiesa di San Domenico suonava. A quel tempo le campane scandivano ancora il tempo del lavoro e della preghiera, segnando le ore con un pari numero di rintocchi, e suonando ad ogni quarto. Negli intervalli tra un quarto e l’altro Vito sbuffava. C’è qualcosa di rassicurante nella ripetizione. Sarà per questo che il tempo mitico corrisponde all’età dell’oro dell’uomo. Il tempo storico è per contro una linea ininterrotta che ammette solo progresso o decadenza. Cecilio non amava il mito. Cecilio faceva il canonico, e amava il tempo escatologico, quello che si conclude con il riposo eterno, ed il proprio nome scolpito nel marmo del libro dei giusti, sotto il monumento ai caduti. Tuttavia, non avendo certezza della salvezza, né del marmo, ma solo dei cipressi, Cecilio voleva quanto meno che il suo sonno non venisse interrotto prima del necessario alla prima Messa della giornata. Vito e Cecilio hanno litigato per anni per via della sveglia. Vito prometteva di mettere un poco di grasso a quella vecchia saracinesca, ma poi lo scordava tra le cosce di Anita. Le cosce delle donne furono impastate con la farina dei non ti scordar di me. E’ per quello che non diventano mai polvere. Ma Cecilio una donna non ce l’aveva mai avuta. E gli era impossibile pensare a Vito come a un povero Cristo unto d’olio dei motori e del grasso delle catene delle biciclette che dopo la croce del giorno cercava un rifugio tra le cosce della sua Maddalena. Dopo l’assassinio di Vito, Anita, che era assai più giovane del marito, e focosa assai per i geni di sua nonna che aveva avuto undici figli da un marito che viveva in Argentina, cercò la compagnia di Yoshi che aveva delle palle di fuoco ancora più grandi di quelle di Vito, e una voce assai migliore. Anita infine si stancò anche di Yoshi. Il wasabi dopo un poco puzza. Nessuno la vide più. Pare che sia in America del Sud, nella pampas argentina. Ogni tanto posta una foto su facebook. E’ sempre bellissima. Era noto a tutti che Cecilio covasse del risentimento per questa cosa, per la sveglia e la saracinesca, ma nessuno a Casale disse niente -Passarono gli anni, e la gente era ancora lì come ferma nel tempo ad aspettare che Anita tornasse. Se non altro il giorno dei morti.
Il giorno dei morti è il giorno più triste dell’anno. Ha una luce particolare, una luce che è accesa e si sta già spegnendo, ed è umido come se tutte le lacrime versate si fossero date appuntamento nel cielo e scivolassero dentro come cera, un’angoscia che diventa ansia e toglie il respiro. L’afrore dei lumini votivi mi soffoca. Al cimitero preferisco andare di giorno, e d’estate, quando la luce è forte e calda e non lascia ombre tra i pensieri, e fuori dal tempio c’è l’odore del fieno e il canto delle cicale, non le bancarelle dei fiori e dei lumini. La prima cosa che si perde quando si perde qualcuno è il suo odore. I cinesi con l’odore dell’incenso misurano il tempo. L’orologio si chiama hsiang yin, sigillo di profumo, perché l’incenso quando brucia assume la forma di un sigillo. Lo hsiang yin misura un tempo che non scorre e non passa, ma permane come un sigillo su una scatola di ricordi in qualche misterioso angolo delle nostre connessioni neurali. Se si riuscisse a trovare la chiave per aprire quella scatola il tempo cesserebbe, si condenserebbe in un attimo di eterno, non svanirebbe come le fotografie sulle lapidi. I nostri vecchi cominciano a svanire dagli occhi. A qualcuno manca già mezza faccia. E una volta che l’avranno persa del tutto cercheranno qualche bambino, in qualche incubo, a cui rubare il viso. E’ per questo che ho preso a fotografarli, e a conservarli in un album dalla copertina damascata come l’interno d’una bara, specie quelli che guardano fiori che sono secchi da secoli e candele di cui resta solo l’impronta sul marmo.
Vito è secco da pochi anni. Il Comune s’era fatto carico del funerale, ma dopo dieci anni, quando di Vito erano rimaste solo le ossa, e non c’erano i soldi per un loculo che profumasse di olio e di grasso Vito è stato rinchiuso in un’app. Basta collegare l’automobile ad una scatola di metallo, e dopo una lunghissima serie di cicalecci, e decine di led che s’illuminano come le luci su un albero di Natale, Vito App spegnerà quella maledetta spia dell’avaria motore. Il motore continuerà a fare rumore di ferraglia, come una saracinesca, ma non ci sarà nessuna spia a segnalarlo. Game Over. The End. La scatola di metallo viene riposta nella sua valigetta di plastica nera, e la valigetta di plastica nera conservata sopra un ripiano che sembra un loculo. Ogni tanto si sente Vito che russa. Penso che sogni le cosce di Anita e il cicaleccio della sua officina. L’officina di Vito, come le botteghe dei barbieri, era il posto dove si commentavano le breaking news del Paese, il teatro dove il Paese si animava, e metteva in scena il suo spettacolo di ombre cinesi e di marionette che ciascuno faceva muovere a modo suo, a secondo delle simpatie e delle antipatie, il rovescio della caverna di Platone dove la vita reale diventava un’opinione che imprigionava tutti. L’opinione aveva spesso le sembianze delle corna. Le corna, i tradimenti veri o presunti, erano le notizie più commentate. Lo sono ancora, al punto che molti sulle corna ci campano pure oggi che la pretesa di essere arbitri di tutti e di tutto ci ha reso cornuti tutti. E’ la vendetta di Minosse, il primo cornuto della storia dell’Occidente. Vito al quale l’esperienza e le malelingue avevano insegnato che le storie non vivono mai solitarie, ma s’intrecciano e ripetono come i rami di una siepe di lauroceraso, per sviare l’attenzione dalla sua bella Pasifae, e dalle corna che la nonna le aveva portato in dote, come memento mori, sul retro della porta dell’officina aveva attaccato le femmine nude di un calendario dei camionisti.
Un camion ce l’aveva pure mio padre. Io spesso lo accompagnavo alla CAVIR a prendere il pietrisco o la sabbia. Mio padre rischiava di addormentarsi alla guida per colpa di un pranzo che s’accordava alla pennichella o al lavoro nei campi, non ad una società con ambizioni di industrializzazione e di imprenditorialità, e io avevo il compito di tenerlo sveglio. Secondo mia madre bastava che aprissi bocca per tenerlo sveglio. Ogni volta che aprivo bocca io e mio padre litigavamo. La maggior parte delle volte tuttavia mi addormentavo dopo pochi tornanti della strada verso Rocca San Felice. Mi faceva piacere stare con mio padre. Era uno dei pochi ritagli di tempo che la vita, una vita dura, ci concedeva. Perciò mi dispiacque quando mio padre assunse un autista. Lui si chiamava Pasquale. La prima cosa che fece fu quella di sostituire il calendario di Padre Pio con quello delle femmine nude. Mi fu simpatico da subito. Un subito che durò poco. Pasquale non aveva mai guidato un camion, solo un furgone delle mozzarelle. La mattina di san Michele sbagliò strada, e si trovò nel cuore della festa. Ne uscì con la bancarella dello zucchero filato agganciata al cassone. Se ne rese conto una volta giunto al camposanto quando venne assalito da una folla di zombies morti di diabete. Gli zombies si rianimarono, presero coraggio e salirono sino al Municipio per l’autoscontro. Quelli che sopravvissero all’autoscontro si diedero alla politica.
A me la politica piace. L’uomo occidentale è un homo politicus. Allora però io non ero ancora un uomo, ma un ragazzino al quale piacevano le femmine nude. E l’unico modo per guardare le femmine nude era imparare a memoria i nomi dei trecentossessantacinque santi che la Santa Chiesa festeggia durante l’anno. Questa coabitazione tra le femmine nude e i santi tuttavia non poteva durare se non al rischio di farsi la croce con la mano mancina. Cosa che porta malissimo. Molti che hanno insistito hanno subito l’amputazione della mano destra per contrappasso, come Jaime Lannister, ma senza mai riuscire a scoparsi Cersei o qualcuna che assomigliasse a qualche mese dell’anno. Ora sono costretti a scrivere su facebook come Ottone di Buldoffen, abbreviando parole e pensieri. Per sfuggire al supplizio io mi rifugiai nelle pagine dell’intimo di Postal Market. Postal Market aveva solo un paio di pagine dedicate ad un intimo sexy che a confronto di quello che si vede oggi pubblicizzato ad ogni semaforo, era quasi monacale, ma che allora era sufficientemente nudo da stimolare la fantasia. Il resto erano pagine dedicate all’intimo che poteva incontrare i gusti e la domanda di una società per la quale il sesso era ancora un tabù, l’illegittima relazione carnale una diminuente della pena per chi uccidesse per salvaguardare l’onore, ed il matrimonio un esame di riparazione. Mutandoni, guaine, corsetti color carne, raramente bianchi o neri, qualche volta impreziositi da pizzi e merletti, si sprecavano. Sarà per questo che ho sviluppato una passione per il vintage. E sarà per questo che trovo le mammanonne incredibilmente sexy. Come Cinzia.
Cinzia abitava di fronte a mia nonna. Aveva sessant’anni, e non aveva mai avuto un uomo. Oggi, dopo trent’anni, ha sessant’anni e non ha mai avuto un uomo che durasse più di qualche notte. Cinzia è una modella di intimo in una pagina di Postal Market, e la donna che nella stanza al primo piano della casa di fronte dimentica di chiudere la tenda mentre infila le calze a rete ieri, oggi, e domani, è una figura nuda dietro le lamelle di una persiana gialla, nuda perché le donne dietro le persiane sono sempre nude, ed un’ombra che mi aspetta nella nebbia gialla di un lampione. Certe donne non invecchiano mai. Cinzia invece non è mai stata giovane. Ma da giovane era bellissima. Mi inviò una foto che la ritraeva alla testa di un corteo prima del referendum sul divorzio. Indossava una camicia bianca aperta sul seno che s’intravedeva quanto bastava a scoprirlo sodo, grosso quanto il palmo della mia mano, e aveva i capelli raccolti da una fascia come quella di Giovannina. Me ne sono innamorato una seconda volta. Ho amato il suo passato, la passione di chi lotta per qualcosa che non gli appartiene, e appartiene a tutti, insieme al suo presente, la solitudine che somiglia talvolta alla disperazione. La solitudine è disperata quando l’abitudine ad essere soli è il respiro dell’anima, e la voglia di un abbraccio, di labbra che ti baciano e di mani che ti toccano un pensiero che soffoca. Io e Cinzia ci siamo incontrati su quest’altalena sotto il cielo sopra Berlino. La vita a volte è fatta di cose fra l’immaginario e il reale, e non si sa per quale optare, finché si impone il secondo, irrimediabilmente. La nostra conoscenza è stata una cosa strana ma bella, che ha lasciato sensazioni indefinibili, ma piacevoli, insieme a un velo di tristezza, e ad una canna in un cassetto. Chi sa se l’avrà fumata. La prima volta che ne ha fumata una c’era Stay in sottofondo. Faraway, so close. Faraway nella canzone degli U2 è messo tra parentesi. Tra me e Cinzia era impossibile tenere la lontananza lontana. Si era lontani per ogni cosa che rende possibile volersi bene.
“Scommetto che da quando non ti tengo più d’occhio ti sarai innamorato e disamorato di qualche pulzella almeno un paio di volte”, mi scrive.
“Si Cinzia, mi sono innamorato e disamorato un’infinità di volte, ma continuo ad essere innamorato del tempo passato con te, della tua vita, di una solitudine che è anche la mia, e mi arricchisce per sentirla sulla pelle. Come le tue mani.”
Cinzia ha delle mani eleganti come quelle scolpite dal Bernini a Santa Teresa, e come Santa Teresa si contorce, la bocca spalancata, gli occhi socchiusi, in un piacere orgasmico. L’angelo sorride mentre le solleva delicatamente un angolo della veste Sorride con se stesso, non sorride a le, con lei. E aspetta. La freccia è protesa verso il corpo di Teresa ma è sospesa nello spazio e nel tempo. Il tempo è fermo, lo spazio dilatato. E ogni futuro è possibile. A Casale invece il futuro è impedito da una montagna