
Christmas (Baby Please Come Home) è una canzone del 1963 scritta Phil Spector, Ellie Greenwich e Jeff Barry che parla d’un tema che mi è caro, quello del ritorno a casa delle persone che si ama per festeggiare il Natale. Delle numerose versioni di questa canzone amo quella degli U2 (https://www.youtube.com/watch?v=mmZBC92pgrE), incisa negli anni migliori della loro storia. Era il 1987 e mio nonno, la persona alla quale sono stato legato di più, era appena andato via. Si chiamava Luigi.
Nonno Luigi non era uno cui si faceva visita per le feste, non tornava a casa. Era casa sua che a Natale diventava, più di quanto non lo fosse normalmente, l’ombelico del mondo. Nonno Luigi non era solo il cantore di storie minime che diventano sempre più evanescenti, e che tra qualche anno saranno del tutto dimenticate, ma era il garante “dell’affetto e della tenerezza che ogni essere umano ha bisogno di donare e di ricevere”, nelle parole di Benedetto XVI, le braccia nelle quali mi rifugiavo quando mio padre me le dava a torto o ragione. Ed era il collante della mia famiglia, una considerazione che ho svolto dopo, quando il ceppo nel caminetto ha smesso di crepitare e di scaldare, riparato dal vetro ceramico del termocamino, ed un altro vetro, la televisione, ha preso a far rumore.
La differenza tra quei Natali e gli altri, quelli che ho vissuto dopo che mio nonno è andato via, è proprio nel rumore: se quelli erano silenziosi, al punto che chiudendo gli occhi si poteva quasi sentire il silenzio d’una notte mediorientale di 2000 anni fa, il crepitio dei fuochi, il respiro d’un bue e d’un asino, ed il pianto d’un bambino, gli altri sono diventati rumorosi. E non solo perché Dio è morto. Il mio confine tra il silenzio ed il rumore ha indubbiamente a che fare con la morte di Dio, ma è soprattutto laico, è segnato più dalla fine della storia che dalla rinuncia alla fede.
Per Hegel e Fukuyama, che alla fine della storia ha dedicato un saggio, le democrazie occidentali sono un punto di arrivo, il culmine della storia, oltre il quale esisteranno storie particolari, non una storia trasversale a tutti gli uomini. The End of History and the Last Man è una buona fotografia degli ultimi lustri della mia vita, che alla storia ha sostituito una perenne attualità parcellizzata e confusa. Invidio la sicumera assordante dei fanatici. Io per contro sono pieno di dubbi. E se il marxismo ha smesso d’essere una mazza con la quale affrontare il mondo, ed il liberismo non lo è mai stato se non per i profili formali della mia formazione universitaria, l’umanesimo mi sembra un buon riparo, ed un buon porto da cui ripartire. A cominciare dal Natale.
Le ultime strenne natalizie di mio nonno erano un evento: 50000 lire! E chi le aveva viste mai tutte insieme! Ne ricordo l’odore. I soldi li conservava mia nonna, e di mia nonna avevano l’odore, un mix di carne, naftalina e sapone di marsiglia. Scommetto per contro che nessuna delle mie “strenne” natalizie ha avuto una traccia che diverrà memoria, che insegnerà la storia.
Il Natale è diventato il culmine del “soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali”: è la definizione di consumismo. Lo si ripete da anni innanzi alla bancarella delle emozioni e dei finti propositi, come un mantra inutile perfino alla meditazione, sempre più stancamente, rassegnati e contenti. Rolling Stone scrive che senza consumismo il Natale non esiste:
“il consumismo non è affatto in contrasto con la speranza cristiana. Il Natale è la festa dell’horror vacui. È l’unico momento dell’anno in cui sfoggiamo la massaia fragile che è in noi, quella che si commuove per la morte della madre di Bambi, un disegno – un disegno! – perso per sempre, è l’unico momento in cui puoi ammetterlo: ti senti solo in un universo sterminato e vuoto e ogni scusa è buona per farsi forza l’uno con l’altro, per fingere che perfino il nulla possa essere infiocchettato se in cartoleria trovi una fantasia abbastanza convincente per la carta regalo”.
E’ per questo che a Natale, questo Natale e quelli dei prossimi anni, ho scelto di regalare una storia, quella di Maqsood Alì.
“Nel mio villaggio non c’era una scuola elementare. Così i bambini dovevano andare in posti lontani, oppure non frequentavano per niente e passavano il tempo a vagabondare per le strade, perché l’istruzione non era una priorità per nessuno. Finché è arrivata ActionAid. Sono stati organizzati diversi incontri con gli abitanti del villaggio per spiegare loro l’importanza dell’istruzione. E proprio questi incontri hanno fatto aprire gli occhi a Maqsood. Di mia spontanea volontà, ho formato una prima classe. Insegnavo per 3-4 ore al giorno. Poi, sempre con l’appoggio di ActionAid, abbiamo fatto pressioni al governo perché la scuola avesse un insegnante fisso. Ora la scuola è sempre aperta e i bambini la frequentano senza problemi. Siamo molto felici e ringraziamo ActionAid per averci sostenuto in tutto il percorso”.
Oggi, nel villaggio di Maqsood sono state riaperte altre scuole. E più di 300 bambini possono finalmente seguire le lezioni