
Avevo portato mio figlio a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, a vedere la mostra di Telmo Pievani e Luigi Cavalli Sforza sull’homo saspiens, un viaggio iniziato duecentomila anni fa da una piccola valle dell’odierna Etiopia, “il viaggio che lo ha portato a colonizzare l’intero pianeta e a convivere con altre specie umane formando la grande varietà di popolazioni e di culture che conosciamo”, e ho scoperto che non lo ricorda. Ricorda lo smilodonte, ma non so se è un ricordo o la memoria d’una fotografia, che’ la sua foto insieme alla tigre dai denti a sciabola è l’unica che ho potuto rubare da quella giornata di fine 2011, ed è l’unica che di quel viaggio ho nell’album della sua infanzia.
Quando iniziano i ricordi nei bambini? Cosa ricorderà mio figlio, cosa ricorderà mia figlia delle estati al mare, della loro nonna, dei viaggi in cui li ho coinvolti, della Soyuz, del Partenone, e di tutti gli altri “fatti” che ho costruito, che abbiamo vissuto perché “noi” avesse un senso diverso da quello che mi legava a mio padre, fosse un duale più che un plurale? “Lo sviluppo cerebrale del bambino si consolida tramite un processo chiamato mielinizzazione , nel quale i collegamenti assonali fra neuroni vengono gradualmente rinforzati da guaine di mielina , una sostanza grassa… L’ippocampo , che trasforma i ricordi a breve termine in ricordi a lungo termine , è molto lento a mielinizzarsi . Ecco perché non siamo in grado di formare ricordi episodici permanenti prima dei tre o quattro anni…”, afferma Jonathan Franzen in un libro che amo molto, Come stare soli, che amo, ho il sospetto, giacché Franzen si interessa infine ai processi della memoria perché costretto dalla morte di suo padre.
Tuttavia, mio figlio aveva più di tre o quattro anni di vita, e non ricorda. Avrà cancellato quel ricordo per fare spazio ad altro. “Una delle grandi virtú adattative del nostro cervello , la caratteristica che rende la nostra materia grigia assai piú intelligente di qualsiasi macchina finora inventata , è la nostra capacità di dimenticare quasi tutto quello che ci è successo”, dice Franzen. Anche i ricordi della mia infanzia, sono rari e confusi. Ricordo il bidone della nafta dietro il quale mi nascosi in uno dei tanti nascondini con Mario, Irene, e tanti altri bambini che non ricordo, e di cui pure potrei fare un elenco attendibile. Sturno allora lo si viveva per strada, e per strada si disegnavano le settimane con Antonella e Cinzia. Tony c’era? Michele c’era di certo: lo ricordo nel mio garage a far danni con un Super Santos, e ricordo il rumore delle bottiglie che si rompevano, ed il rumore delle finestre di Gilardo Re Corciolella che puntualmente ci sequestrava il pallone. Ricordo Ernesto che ora che le stelle son spente, imballata la luna, smontato il sole, posso chiamare per nome senza timore di dire troppo, o dire troppo poco, finendo per dire solo “ciao Erne’, ciao, ma rimani dentro”. Ricordo la mia prima bici, e il momento in cui l’ultima rotella su cui poggiavo le mie insicurezze si ruppe, e la gioia che provai per un equilibrio che era tutto mio: l’imparare ad andare in bici era allora una sorta di rito di passaggio. Ricordo l’esame di quinta elementare, mio nonno che mi premiava con 1000 lire, una enormità, e quel primo giorno di vacanza del 1980, il sole in faccia lungo la strada che s’inerpicava sulla Cappella fino al bivio di Gesualdo, il prato che mi fermai a guardare al ritorno, le pecore bianchissime, e Rocky, il mio pastore tedesco nero, che sembrava un arbitro che rincorreva i calciatori in quello spazio dove, da lì a qualche anno, sarebbe sorto Il Castagneto. Un ricordo, afferma lo psicologo Daniel L . Schachter , è una “costellazione temporanea di attività – un’eccitazione inevitabilmente approssimativa dei circuiti neuronali che collegano un insieme di immagini sensoriali e dati semantici per creare la sensazione momentanea di un ricordo unitario . Immagini e dati sono raramente appannaggio esclusivo di un unico ricordo”.
Ricordo le emozioni. E’ per questo che la prima cosa che i miei figli vedono quando entrano a casa, e la prima immagine che vedo ogni mattina, è un invito ad emozionarsi. San Martino del Carso è una poesia di Ungaretti, un’emozione come spesso sono le poesie, ed il titolo d’una mia foto: tre sedie che continuano oltre l’inquadratura, che sono tante, “di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto. Ma nel cuore nessuna croce manca”. Ungaretti, come nelle altre liriche de Il Porto sepolto, il suo diario dal fronte della Prima Guerra mondiale, confluito nella raccolta L’allegria, ha indicato il luogo e la data di composizione dei suoi versi. San Martino del Carso si trova in provincia di Gorizia, poco lontano dall’Isonzo. Poco lontano dal paese c’è un valloncello “un percorso utilizzato come passaggio tra la Quota 141 (che oggi corrisponde all’abitato di Poggio Terza Armata) e la Cima Quattro del Monte San Michele. Per la sua profondità e per le numerose cavernette artificiali venne considerato come una via d’accesso assolutamente sicura: i reparti italiani infatti riuscivano a restare al coperto dal fuoco nemico fino alla prima linea.” Se si segue il corso dell’Isonzo verso nord si giunge in terra slovena. Poco distante da Tolmino c’è Santa Lucia d’Isonzo. Il 26 febbraio 1916 c’è morto il mio bisnonno, Luigi Melchionna, “per una palla di cannone caduta nel baraccamento dove dormiva”. Mia nonna, Elena, il 22 febbraio 1916 aveva compiuto un anno. Di suo padre conservava solo una foto, lui in divisa, fiero, sua madre, imbarazzata, e lei che non ricordo se dormisse o guardasse l’obiettivo incuriosita. Ho il ricordo del ricordo del mio bisnonno e della mia bisnonna, ma mia nonna in fasce ho difficoltà a ricordarla: la vita che ho vissuto insieme a lei pretende che la sua immagine abbia le rughe scavate come letti asciutti di fiumi tra i sali di alogenuri d’argento e la gelatina della pellicola, e non la pelle morbida dei neonati. Non la riconosco in quella fotografia, e non mi emoziona, perché quell’immagine finisce per essere travolta dai ricordi che ho di lei via. Del mio bisnonno e della mia bisnonna invece è l’unica emozione che mi è possibile.

Il mio bisnonno faceva parte della Brigata Benevento composta dal 133° e 134° Reggimento Fanteria. Nei primi mesi del 1916 la Brigata Benevento venne impegnata sulle colline di S. Lucia, nel bosco di Usnik nelle trincee di Jeseniak, a Case Ciginj. Il certificato di morte del mio bisnonno parla del baraccamento di Case Bertini, e d’un cimitero di Case Bertini dove il mio bisnonno sarebbe stato sepolto. E’ l’ultima notizia che ho di lui. Negli archivi dei diversi sagrari militari della Prima Guerra mondiale il suo nome non risulta. E Case Bertini non esiste in italiano. Rimane una fotografia.