Havel havalim

Viaggiare da Marrakesh a Essaouira permette d’osservare un Marocco diverso da quello offerto dai cataloghi delle agenzie di viaggio, un villaggio brulicante di bici, di motorini affollati e precari, di gente seduta ai bordi della strada che sembra avere l’unico impegno d’osservare  la vita che scorre dalla periferia caotica e affollata della metropoli nei campi di grano che si perdono all’orizzonte, e tra rari vigneti, e officine meccaniche del colore dell’olio bruciato e del grasso dei motori, sfocia nell’oceano. 

Mi sarebbe piaciuto fermarmi in una di quelle officine. Somigliavano a quelle di Rocco Maglio, uno degli anziani che hanno riempito d’immagini la mia infanzia. Rocco Maglio era un omone con la voce ed il carattere d’un bambino. La sua mole lo costringeva a stare spesso seduto, e io finivo per fantasticare d’un uomo le cui appendici erano le catene e gli ingranaggi con i quali armeggiava. Avrei avuto la possibilità di rendere viva una delle immagini che conservo nella tasca dei ricordi. L’autobus, affollato di turisti, fece invece due tappe, in un laboratorio dove donne troppo floride per essere vere spremevano l’olio di argan dai semi di Argania, e di fronte ad un frutteto di Arganie, una trappola dove la fotografia è caduta forse vittima della banalità. 

Luigi Ghirri fotografava la banalità, e usava colori slavati proprio per sottolineare la delicatezza di cose che passano, che nessuno guarda. E’ ad esempio la banalità dei vestiti che i miei figli hanno appena smesso, buttati sul letto, sulle sedie, in attesa che io li pieghi, e ancora impregnati d’un odore che il tempo laverà via insieme al mio ricordo e alla mia fatica. Esistono foto banali?

La fotografia è vittima del suo potere, della inscindibilità del suo rapporto con il referente. “L’immagine esercita autorità e persuasione sulla nostra coscienza. È una mediazione tra noi e il mondo. Siamo di fronte a un pericolo quando l’immagine soppianta magicamente la realtà, ed è per questo che la fotografia serve così bene la propaganda e la post-verità. In questa situazione, tutta la resistenza critica va a dimostrare che l’immagine, come tutti i prodotti umani, è una costruzione culturale e ideologica”, dice Joan Fontcuberta. La carriera di Joan Fontcuberta ruota proprio intorno al rapporto tra fotografia e verità. Prima di conoscere le Spice Girl (I Knew the Spice Girls) Fontcuberta  si è servito di un software adoperato nello studio dell’orogenesi che dall’input delle carte topografiche ricostruisce un paesaggio: in Landscapes without memory Fontcuberta ha ingannato il programma inserendo come input non mappe, ma opera di altri artisti ricavando meravigliose fotografie di paesaggi che non hanno una memoria.  Fontcuberta l’ho conosciuto attraverso uno dei suoi ultimi libri, la fotocamera di Pandora. Il riferimento a Pandora serve a Fontcuberta per concettualizzare la natura capricciosa della fotografia, il suo rapporto volubile con la verità.

Esiodo racconta che Zeus volesse vendicarsi del furto del fuoco divino da parte di Prometeo, punendo non solo il Titano, ma anche la sua creatura, il genere umano. Per punire gli uomini ordinò ad Efesto di creare una donna, Pandora (Πανδώρα, da πᾶς “tutto” e δῶρον “dono”, cioè “tutti i doni”), ordinando alle divinità di donarle ogni virtù possibile: Afrodite le diede la bellezza, Apollo il talento per la musica. Ermes che aveva donato a Pandora l’astuzia e la curiosità condusse quella ragazza ad Epimeteo, il fratello di Prometeo, insieme ad un dono di Zeus, un vaso, con l’ordine di non aprirlo. Se Prometeo era incatenato ad una rupe dove ogni si giorno si recava un’aquila a divorarne il fegato, Pandora, invece, era divorata dalla curiosità di conoscere ciò che era celato nel vaso, e infine aprì il coperchio: dal vaso uscirono tutti i mali del mondo. La vecchiaia, la gelosia, la malattia, l’odio, la menzogna, l’avidità trasformarono la terra in un inferno. Sul fondo del vaso rimase invece Speranza che non fece in tempo ad uscire prima che Pandora ne richiudesse il coperchio. I miti greci sono figure della duplicità, forse perché nella cosmogonia orfica Eros-Phanes, emerso all’inizio dell’universo dall’uovo cosmico deposto da Chronos e Ananke, quale principio primo ed unico, era ermafrodito, con i genitali sulla schiena: piacere e dolore si presentano sempre appaiati. Così è anche la fotografia, la bellezza che essa riesce a mostrare, la vita che riesce a ricordare e immola sull’altare del tempo che passa. 

Hevel hevelim è l’inizio dell’Ecclesiaste: tutto è soffio. I latini lo tradussero con vanitas vanitatum. E’, dice esattamente Umberto Curi, una traduzione tirata per i capelli, se si ritiene che la vanitas sia “l’ostentazione del transitorio” e non invece un rimando al memento mori, a “un lento e graduale processo di indebolimento che si protrae fino alla completa estinzione”. Nell’Ecclesiaste domina la domanda del perché del dolore. Dio resta sullo sfondo. Nel libro di Giobbe invece il perché del dolore è la domanda che Giobbe fa a Dio stesso. In entrambi i casi non c’è alcuna prospettiva salvifica: non c’è un al di là dove il dolore sia assente, e Dio resta ancorato alla prospettiva ebraica di una giustizia retributiva: “Egli paga l’uomo secondo le sue opere, retribuisce ciascuno secondo la sua condotta”. E’ più o meno la visione di Aristotele per cui la felicità era da riconnettere alle azioni virtuose e non, come affermato da Solone e Sofocle, alla buona sorte che rende tutti infelici giacché non possiamo “giudicare felice nessun uomo mortale prima che sia giunto al termine dell’esistenza senza aver sofferto il dolore”. Quale felicità? Non certo la Makaria, la beatitudine degli dei, o quella cristiana, ma la eudaimonia, lo stare bene insieme al proprio demone, una sorte che mischi il contenuto dei due orci conservati presso la dimora degli dei in modo che l’uomo ottenga in sorte un bene sempre e comunque temperato dal male. L’esperienza del dolore, insomma, anche in presenza di una sorte fortunata è connaturale alla vita dell’uomo. E’ quello che conduce Euripide al me phynai, al “meglio non nascere”.

Tra qualche anno, quando come Edipo avrò conosciuto me stesso, quando il dolore fisico diverrà sofferenza psicologica, e prenderà la forma di pantofole ai piedi di un divano o d’un letto d’ospedale, forse sentirò diversamente, come Sofocle probabilmente, non come Euripide. Prenderò una fotografia, e penserò a ciò che è stato, e che non è stato mai banale anche quando appariva come una trappola per turisti, e mostrava il velo di Maya, una cartolina come in google se ne trovano tante, un googlegramma scattato ai piedi di quello stesso albero di Argania, a capre che si tramandano da padre in figlio affinché io possa chiedermi se ne è valsa la pena.

Ne è valsa la pena? Si, indubbiamente: “et mundum tradidit disputationi eorum ut non inveniat homo opus quod operatus est Deus ”. La ricerca è sempre un esercizio vano, ma non è mai banale, anche quando la scoperta delude. Non c’è allora che riaprire il vaso e permettere a Speranza di raggiungere Fantasia.


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