
L’uomo ed il linguaggio sono coessenziali. Secondo Robin Dunbar il linguaggio, meglio, la sostituzione del linguaggio alla pulizia reciproca della pelle propria delle scimmie, dovuta all’insufficienza di tale prassi come strumento conservativo della coesione sociale nel momento in cui i gruppi di individui divennero troppo numerosi, è stato ciò che ha consentito lo sviluppo dell’encefalo nell’uomo. Mediante il linguaggio la specie umana scambia informazioni socialmente rilevanti in misura largamente indipendente dalla distanza delle fonti mantenendo saldi i legami familiari e affettivi; il linguaggio, serve a tessere tutti quei legami propri di una società umana, così come la pulitura del pelo in una società di primati non-umani. Dunque il linguaggio e’ ciò che ci ha consentito di essere uomini. Nella nostra società contemporanea i luoghi del linguaggio, l’agorà, la piazza, la strada soleggiata e popolata dagli stridii di miriadi rondini e dal chiasso di frotte di bambini dove si e’ svolta la mia infanzia, sono stati sostituiti da luoghi virtuali, multimediali. La prima aggravante è la realizzazione della profezia di McLuhan: il mezzo e’ diventato messaggio, il contenitore è diventato contenuto. Ipse dixit: nel De natura deorum Cicerone ricorda come i pitagorici fossero soliti riferirsi al loro maestro con tale espressione; nel medioevo Averroe’ utilizza l’espressione con riferimento ad Aristotele ed al valore confermativo del Corano ravvisato nella filosofia dello Stagirita; oggi, sempre più, e’ vero ciò che viene rappresentato dai media; la misura della rappresentazione e’ anzi misura della verità del rappresentato. La seconda aggravante è in fieri: la si ravvisa nei commenti ai post sui social network, negli sms…
L’uomo parla e la parola permette profondità, consente l’esercizio della profondità. Baricco a proposito della profondità e dell’imbarbarimento del linguaggio scrive che barbaro è chi non conosce il nostro linguaggio, chi vive in superficie fregandosene del senso. “Viaggiamo velocemente e fermandoci poco, ascoltiamo frammenti e non tutto, scriviamo nei telefoni, non ci sposiamo per sempre, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema, ascoltiamo letture in rete senza più leggere libri e tutto questo andare senza radici e senza peso genera tuttavia una vita che appare sensata e bella». Lo trovate a questo indirizzo:
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/08/26/news/barbari_2026-6516602/
Baricco, nel tessere l’elogio di questa mutazione, della sostituzione della superficialità alla profondità, intende forse semplicemente provocare una reazione: già il fatto di collocarsi, di ambientare il successo dei barbari nel 2026, alla maniera di Ray Bradbury, dovrebbe suggerire una tale interpretazione. Ma c’è di più: Baricco non è un barbaro ma, anzi, perviene ad una tale lucidità di analisi, ad una tale profondità proprio perché avvezzo agli strumenti linguistici che ai barbari sono estranei, giungendo in tal modo laddove nessun barbaro giungerà mai, al senso ultimo delle cose.
Provocatoriamente, potrebbero invitarsi i tanti amici usi a sostituire la “k” al “che”, a parlare per acronimi per i quali “msg” significa “messaggio” piuttosto che “massaggio”, a sostituire il loro linguaggio all’italiano di Baricco e a verificarne il senso.
In ogni caso, la rinuncia alla profondità consentita dal linguaggio, quella, parafrasando Pasquino, per la quale “i pensieri vengono scrivendo”, quella che è consentita dal tempo necessario alla scrittura del “che”, dalla lentezza, dalla fatica della grammatica e della sintassi, è la rinuncia all’uomo oltre che, nel nostro caso, alla lingua più bella che la storia abbia elaborato, d’una ricchezza espressiva, di una musicalità che è realmente il marchio dell’Italia.