Dreams and Visions

Alla fermata Zoo del metrò, un impiegato, invece di dire il nome della stazione, improvvisamente ha gridato: “Terra del Fuoco”.

Berlino? Lisbona? Quando? Ci sono posti che sono dovunque e sempre. La stazione della metro di Lisbona di Alcantara-Mar, come mille altre stazioni delle metropolitane in giro per il mondo, è uno di quei posti che hanno un nome solo per caso, ed un quando che è il tempo di un’attesa che sembra non finire mai, che appartiene al mondo di sotto, quello che ogni tanto viene alla ribalta delle pagine di cronaca per un fatto di sangue, o per un barbone morto di freddo, e che non mi appartiene e vorrei mi appartenesse un poco. L’angelo di Wim Wenders, nel Cielo sopra Berlino, c’era passato senza fermarsi, preferendo la luce dei neon delle carrozze e delle biblioteche per sbirciare nell’angoscia degli uomini. “Come vorrei essere per una volta uno di loro! Vedere con i loro occhi, ascoltare con le loro orecchie, e decifrare come vivono il tempo, e subiscono la morte. Come sentono l’amore e percepiscono il mondo. Essere uno di loro, per diventare un più luminoso messaggero di luce in questa epoca buia.”, dice Cassiel parlando degli uomini. Io che sono uomo vorrei essere per una volta uno di quegli uomini che vivono nel mondo di sotto, vedere con i loro occhi, ascoltare con le loro orecchie.

Non riuscivo a capire come acquistare il biglietto che da Alcantara-Mar mi avrebbe portato a Matrim Moniz e poi, attraverso le arterie strettissime di Graca, Alfama, Baixa e Estrela, nel cuore di Lisbona. Mi avevano consigliato il biglietto di 24 ore per i mezzi pubblici, ma non mi avevano avvertito che le casse automatiche delle stazioni della metropolitana di Lisbona sono l’invenzione d’un misantropo, uno specchio muto che rifletteva la mia immagine confusa e impaziente. Ero con mia figlia. La presenza d’una bambina è quasi sempre un passe-partout per posti pure meno raccomandabili di quello dove mi trovavo: “chi farebbe male ad una bambina per qualche spicciolo?”, riflettevo provando a nascondere sotto la normalità della ragione la mia ansia di padre. Dietro uno dei pilastri della stazione avevo notato un tossico. Mi aveva rassicurato il fatto che quando i nostri occhi s’erano incrociati aveva cercato di occultare la sua presenza, e la siringa che aveva in mano. Ma non ero tranquillo. E la rara gente che passava ve la raccomando: “get rich or die tryin!”. Era il palcoscenico perfetto per un video clip d’un pezzo rap o hip hop, le luci fredde dei neon, i graffiti alle pareti, ma non c’era musica, solo silenzio, il rumore di passi che si allontanavano e quel tossico. Ho scattato una foto, cercando di non farmi notare: quel palcoscenico non era il posto per la Nikon, ma solo per un quadro storto da appendere all’album dei ricordi.

E’ arrivata una ragazza, una ragazza di colore con un culo enorme: “could you help me? I can’t understand how this thingamajig works”. C’ha perso dieci minuti buoni, poi ha chiesto informazioni al tossico. Quale biglietto conveniva acquistare? Si conoscevano, almeno così pareva, ma non appartenevano allo stesso mondo. A quale mondo apparteneva lei? Cosa la rendeva insieme identica e dissimile? Il tossico si è alzato con fatica, alto e secco come un albero senza vita. Era, o era stato, assai bello, dipende dai punti vista. Io l’ho trovato bello, uno con il quale scattarmi una fotografia, uno al quale chiedere un racconto. Mi ha chiesto informazioni su dove volessi andare, io gli ho detto del tram 28. Lui mi ha chiesto una sigaretta: “it’s not for information. Only if you like it”. Gliene ho dato 5, tenendo per me il resto del pacchetto di Marlboro che era quasi vuoto.

“It’s not for information. Just for the pleasure of offering them to you”. Ne avrei fumato un paio insieme, ma c’era Greta. Greta mi ha tirato per un braccio: “papà”.

“Siete italiani?”

“Si”, ho risposto mettendo da parte il mio inglese e quel poco di ansia che m’era rimasta addosso e che mi era rimasta appesa al braccio.

“Bella l’Italia. Sono stato 10 anni con una ragazza italiana. Abbiamo convissuto per 8 anni. Poi…poi è finita”, mi ha detto in un italiano perfetto, come perfetto era il suo inglese. Lo avrei abbracciato. “Com’è possibile che un uomo che parla correttamente tre lingue avesse le ossa che gli uscivano fuori dalla pelle, da sotto i vestiti”, mi chiedevo. “Qual è la differenza tra me e lui?  Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro?”

“Papa’, ma perché in Italia non sono così gentili?”, mi ha chiesto Greta andando via.

“Sarà per il fado”, le ho risposto.

Siamo a piazza Matrim Moniz . “Ed eccoci sulla piazza del popolo, siamo qui tutti e due e l’intera piazza è piena di gente che si augura la stessa cosa che ci auguriamo noi”, diceva Marion. E’ capodanno. Dovrei essere allegro. Io penso alla gentilezza, e ripenso al fado.

Il fado è la lingua gentile della saudade. Saudade, dal latino solitas, solitudine, è qualcosa di diverso dalla nostra nostalgia. Una lista compilata da Today Transaltion con le opinioni di un migliaio di traduttori professionisti indica la “saudade” come la settima parola più difficile al mondo da tradurre. La saudade è infatti qualcosa che non è completamente definibile perché non ha a che fare solo e sempre con il dolore del ritorno, con l’algos di persone e posti collocati in un passato verso cui viaggiare, non è l’algia di un viaggio, il nostos, che si è già compiuto, ma è anche e insieme lo struggimento per un futuro, per un viaggio che non si è fatto. Struggimento: i tedeschi parlano di sehnsucht. E’ la ricerca di qualcosa di sconosciuto, un desiderio che spinge chi lo avverte a cercare costantemente qualcosa o qualcuno per riempire il vuoto che sente, un qualcosa e un qualcuno che non basta mai perché lo struggimento è una lacerazione che non si rimargina, che sanguina subito dopo.

Saudade non è un assoluto, e non è un relativo, è una relazione, lo yin e lo yang, il silenzio ed il suono che possono essere catturati solo con un linguaggio artistico: la suadade parla con la lingua gentile del fado. Il fado, dal latino “fatum, destino, esige il silenzio: “o fado exige silencio” era scritto sul tavolo che avevamo prenotato.

“Bellissimo papà. Peccato per lo sfondo: quell’uomo assomiglia a Baglioni!”


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