Presentazioni

_DSC4073-1Mio padre è morto il 1 settembre 2003. Non è morto come si dovrebbe morire, non ha semplicemente chiuso gli occhi. La sue morte è durata due anni. Due anni, e ogni giorno si portava via un pezzo di carne e d’anima di quello che io continuavo a vedere, sotto la scorza d’un omone con due mani enormi, la pelle scurita dal sole, le rughe e l’afrore della fatica quando entravo in bagno dopo che aveva lavato via 10 ore di lavoro, come un gigante buono. Mio padre apparteneva alla generazione dei padri che non c’erano, la generazione dei padri, e dei nonni, che ha ricostruito questo Paese dopo il dramma del secondo conflitto mondiale, quella che ha emigrato e poi è tornata, che c’era per tutto quello che mancava, e non c’era per quello che mancava di più.

L’unica carezza mio padre me l’ha fatta 15 giorni prima di morire. Era domenica. Lui dormiva, io lo guardavo seduto su una vecchia poltrona accanto al letto.

“Ti faccio pena?”, mi chiese, quasi che quella carezza scoprisse troppo, e avesse bisogno di vestirsi nuovamente della sua corazza.

Non era pena, papà. Era tempo, il tempo che non abbiamo avuto, quello che ci siamo rubati. Tu morivi, e io non sapevo nulla di te, nulla di te e mia madre, e tu non sapevi nulla di me. Conoscevamo solo la rabbia, io la tua, tu…cosa pensavi tu?

L’idea di questo diario la maturai allora, allora e prima, da quando la speranza lasciò il posto alla consapevolezza e all’attesa, e mi sembra di vivere immerso in un’acqua torbida, in un liquido scuro e denso che non lascia passare luce, che penetra ogni gioia e ogni grano di tempo.

Mio figlio, mia figlia, la nascita, il primo pianto disperato nella bocca priva di perle e quelli successivi, gli occhi ogni giorno più curiosi, le mani che accarezzano il mio viso dopo ogni assenza e ogni ritorno sono quanto di meglio mi è capitato. E quell’ombra mi fa temere che questa speranza di luce e di caldo si riveli effimera, sia come la nebbia della nostra vallata nelle giornate estive, pronta a regalare nuovi colori e visioni per brevi istanti e presto asciugata dall’uomo che si risveglia.

E ora che l’adolescenza pare trasformare in muri le parole, e in silenzio i muri, ho pensato che fosse il caso di ricominciare a parlare.


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