Quelli che restano

Amo viaggiare, amo leggere. Una delle ultime letture mi ha raccontato della coincidenza tra sei tradizioni di pensiero, tra neoplatonismo, vedanta, buddhismo, kabbalah, taoismo e sufismo: tutte propongono un itinerario, un viaggio, nel quale l’assoluto, l’en, l’atman-brahman, il wuji, si determina nella molteplicità degli oggetti e dei fenomeni naturali, la physis, il nirmana kaya, lo yin. E’ un viaggio che confonde. Di fronte alla confusione della molteplicità, si avverte l’esigenza, si desidera, un viaggio a ritroso verso l’Assoluto. “Quando il grande Einstein resta incantato dalla ragione superiore che regge l’universo, io non posso impedirmi di pensare che questa ragione superiore è tutta intrisa di follia smodata, con le annichilazioni di antimateria da parte della materia, le collisioni e le esplosioni di stelle, le ininterrotte disintegrazioni di tutto ciò che è integrato, senza dimenticare i cataclismi che la storia della vita ha conosciuto, e, se passiamo all’umano, le estinzioni di civiltà, gli annientamenti culturali e il dilagare di massacri e deliri, e crudeltà di ogni sorta!”, scrive Edgar Morin. Più viaggio, più leggo, più quelle poche certezze che mi restano vacillano, crollano. Ho trovato un faro tuttavia, una luce che forse, per qualche strano caso della genetica o della cultura, già mi apparteneva: “we are humans, remember that!”

“We are humans” appartiene ai miei ricordi cambogiani. E’stata scattata a Tuol Sleng, il museo del genocidio cambogiano che dal 2009 è stato inserito dall’UNESCO nell’Elenco delle memorie del mondo. E’ un messaggio, un augurio tra tanti, ma come i graffiti di Pompei, da’ testimonianza di un’era. E nella nostra era l’umanesimo vacilla. Oggi, è ancora possibile dirlo, e spesso serve urlarlo, non solo ricordarlo. Domani? Non conosco il domani, e mi sembrava doveroso che “we are humans” e Tuol Sleng prendessero parte a questo viaggio insieme ai mie figli.

“Ma quanti ebrei sono morti?”

Stavamo guardando Il Pianista. Conny che della shoa ha letto e visto un bel po’ non ha detto una parola. All’orrore non ci si abitua. Greta, che ha conosciuto solo un bambino con il pigiama a righe, ha pianto, e s’è rifugiata tra le mie braccia, spezzata, incredula. “Quel 6 milioni che è la risposta dà la misura della tragedia”.

“Anche i bambini come me?”

“Sì. Erano bambini e pochi sono tornati a raccontarlo”

“Papà mi porti ad Auschwitz?”, mi ha chiesto Greta, timorosa. Non era paura, era il timore di quella conoscenza che fa male come un pugno nello stomaco, come un odore che non riesci a toglierti di dosso. Come l’odore di Birkenau.

Ovunque mi giro ci sono solo rotaie, baracche di legno, e distruzione. “Il crematorio V ha funzionato sino agli ultimi giorni in cui sono rimasti i tedeschi nel campo. Lo hanno fatto saltare con la dinamite poco prima della loro fuga. È successo il 20 gennaio 1945 (secondo altre testimonianze, il Crematorio V fu distrutto più tardi, dopo il 22 gennaio, forse addirittura il giorno 26 – n.d.r.). Nell’ultimo periodo, si è bruciata solamente la gente morta o ammazzata nel campo. Non sono più state fatte gassazioni di persone. Il funzionamento del crematorio [V] era assicurato da 30 persone del Sonderkommando. Le altre erano impiegate nello smontaggio dei crematori II e III. Io stesso ho lavorato a questo smontaggio.”, racconta Schlomo Dragon uno dei sopravvissuti del Sonderkommando di Birkenau. Quello che resta tuttavia, e quello che è stato ricostruito affinché i vivi abbiano memoria dei morti, basta ad un groppo alla gola che è anch’esso incredulità, la stessa di Greta, ché all’orrore non ci si abitua, e a Birkenau l’orrore si misura. Il campo è immenso. Solo salendo sulla torretta se ne può misurare l’estensione, immaginare le baracche fino al bosco di betulle dove ancora oggi si trovano le ossa e la cenere delle vittime.

“Auschwitz una volta nella vita va visitato. Mi ricorderò sempre il binario chilometrico, la carovana dove venivano trasportati i prigionieri dove neanche le peggiori bestie ci sarebbero dovute salire, naturalmente le docce e i forni crematori e poi il legno su cui dormivano i prigionieri. Era talmente duro che a pensarci viene male alla schiena pure a me. L’atmosfera è surreale e il posto sembra quasi finto. Non puoi credere che settant’anni prima siano morti milioni di persone e alcune volte penso a come possa essere accaduto”, scrive Jacopo Pavani, uno studente di una scuola di Bologna, l’ITC Rosa Luxemburg, su Staffette della Memoria. (http://www.luxemburg.bo.it/staffettememoria/)

Auschwitz una volta nella vita va visitato. “Non mandate i figli in gita ai campi di sterminio. Lì si va in pellegrinaggio. Sono posti da visitare con gli occhi bassi, meglio in inverno con vestiti leggeri, senza mangiare il giorno prima, avendo fame per qualche ora”, scrive Liliana Segre. Ad Auschwitz le lacrime sono facili. Ognuno cerca di dissimularle come può. Il dolore è un fatto privato, e quando non hai un Dio che ti soccorre, che ti asciuga le lacrime, la fotografia è un ottimo rifugio dietro cui ripararsi.

Se l’Europa ha radici nella tradizione giudaica e greco-romana e nell’illuminismo, Auschwitz e Birkenau sono il contraltare di Gerusalemme, Atene e Roma. Auschwitz va visitato perché la memoria non basta, perché alla memoria servono i fantasmi, e le scarpe, gli occhiali, i pettini e i pennelli da barba, le valigie, le piccole cose che riempiono la vita d’ognuno. “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.”, scrive Hannah Arendt. I deportati nei campi di concentramento hanno scritto diari e lettere e memorie nel tentativo di lasciare una traccia d’un sé che era ridotto ad un numero tatuato sulla pelle del braccio, per raccontare la loro storia sullo sfondo d’una storia di vincitori e vinti che finisce per scordare proprio l’uomo. Aron Lieukant sul treno che lo portava ad Auschwitz scriveva ai figli Berthe e Simon di non bere bevande fredde quando sono sudati. Da anni cerchiamo di capire, di non perdere la memoria, di restare vigili perché la storia non insegna, e a volte si ripete.

I cinque edifici del complesso che un tempo era la Tuol Svay Prey High School furono trasformati in una prigione e in un centro per interrogatori e torture nel 1975, 30 anni dopo la liberazione di Auschwitz da parte dei sovietici. Quando ho visitato Tuol Sleng ho scattato diverse foto dei visi dei cambogiani che a Tuol Sleng o nella vicina Choeung Ek (Killing Fields) avevano trovato la morte. Ognuno di quei visi meriterebbe una storia che non sia solo quella degli archivi delle confessioni e delle torture, e che raccontasse delle bevande fredde e del sudore di ogni giorno, di padri e madri e figli, ma la Cambogia e Tuol Sleng sono lontane, e appartengono ad un mondo che ha smesso di ricordare. “Le persone non volevano più credere e non volevano più sentir parlare di tristezze, perché anche qui avevano sofferto per la guerra, per i bombardamenti, per le privazioni, per i lutti. Basta, adesso non parliamo più di dispiaceri, bisogna andare incontro a una nuova vita fatta di speranza e di propositi, non parliamo più”, scrive Goti Bauer.

Si dice che un’immagine vale più di mille parole, eppure l’immagine di Hout Bophana è muta. Racconta di una donna assai bella, e d’uno sguardo di sfida, nulla di più. La storia di Hout Bophana è raccontata invece con minuzia dalla penna di Kang Kek Iew, il “Compagno Duch” che dirigeva Tuol Sleng, e dalle lettere delle speranze e dei propositi che lei scriveva all’uomo che amava.

Hout Bophana era nata nel nord-ovest della Cambogia. A 16 anni si era innamorata di un suo lontano cugino, Ly Sitha. Prima che potessero sposarsi, il loro mondo era finito. The End. In Apocalypse Now il colonnello Kurtz si rifugia proprio nelle foreste della Cambogia. Mio figlio direbbe che la storia di Hout Bophana e di Ly Sitha, e la storia recente della Cambogia, è uno spin-off della guerra del Vietnam, uno spin-off con una colonna sonora e un regista insufficiente alle passerelle della memoria collettiva. La Cambogia è lontana, e le persone non vogliono più sentir parlare di tristezze. Di morti. Di profughi.

Ora, nel film, Sitha è diventato un monaco e Bophana e le sue sorelle sono fuggite in una città di provincia, dove Bophana viene violentata da un soldato cambogiano, rimane incinta e partorisce un figlio. Poi Bophana si trasferisce nella capitale, dove riesce a trovare lavoro in un’organizzazione benefica straniera. Nella primavera del 1975, i Khmer Rossi conquistano il controllo di Phnom Penh, e il mondo di Bophana finisce di nuovo. 

Pubblicità. Il tempo d’un Coca Cola, di un bicchiere di popcorn, e magari d’un selfie e d’un tweet: “Due etti di bucatini Barilla, un po’ di ragù Star e un bicchiere di Barolo di Gianni Gagliardo. Alla faccia della pancia!”

“Shhh!”

Bophana era una donna colta e sofisticata: per i Khmer Rossi la sua educazione era un delitto. Insieme a centinaia di migliaia di altri, fu portata fuori dalla città, separata dalla sua famiglia e costretta a lavori forzati nei campi. Stava morendo di fame quando Sitha improvvisamente riapparve, non nelle vesti dei monaci, ma nel pigiama nero dei Khmer Rossi. Sitha, ora chiamato Compagno Deth, si era unito alla rivoluzione ma non aveva dimenticato Bophana, e aveva usato la sua posizione per rintracciarla. Disse agli abitanti del villaggio dove Bophana viveva che era sua moglie e chiese per lei cibo e cure mediche. Quando Sitha dovette tornare a Phnom Penh, lui e Bophana presero a scriversi d’amore, di speranze e di propositi. La donna che ospitava Bophana si insospettì di quella corrispondenza e la denunciò. La loro storia d’amore fu scoperta: Sitha fu arrestato per aver nascosto la sua educazione (le lettere erano scritte in francese, inglese e khmer), e per il reato ben più grave di anteporre l’amore alla rivoluzione. Sitha fu giustiziato e Bophana fu inviata a Tuol Sleng, dove fu interrogata, torturata e, infine, giustiziata.

La storia di Bophana che ho conosciuto grazie alla voce nell’audioguida di Toul Sleng è stata raccontata dalla giornalista Elizabeth Becker in When the War Was Over , il suo magistrale resoconto dei Khmer Rossi e delle sue conseguenze. Il suo racconto è stato la base per il film del 1996 “Bophana: una tragedia cambogiana”. John Dawson Dewhirst, una delle vittime occidentali del regime di Pol Pot, ha una storia alla quale la voce all’interno delle cuffie accenna appena.

“Dewhirst nacque nel distretto di Jesmond, presso Newcastle nel 1952. Suo padre era preside, mentre sua madre aveva un negozio di antiquariato. Dopo la laurea, nel 1977 si trasferì a Tokyo per insegnare inglese”. Era conosciuto dagli amici per essere sensibile, gentile e premuroso. Molto più tardi, i membri della famiglia scoprirono che era stato descritto dalla persona che aveva ordinato il suo omicidio come “un giovane educato”. Hilary è la sorella Di John: “Mi scriveva nei suoi viaggi”. Hilary sa che, dopo aver lasciato Tokyo, John ha viaggiato molto. “Corea del Sud, Indonesia, Singapore, Malesia …”. Ha fatto amicizia lungo la strada, inclusi due uomini chiamati Stuart Glass, un canadese, e Kerry Hamill, un neozelandese. Si incontrarono nella città malese di Kuala Terengganu, all’epoca una piccola città portuale con un clima tropicale che si affacciava sul Mar Cinese Meridionale, con una spiaggia di palme e tradizionali palafitte disseminate sul fiume. Nell’estate del 1978, sei mesi dopo che John aveva lasciato il Giappone, i tre decisero di fare un viaggio sullo yacht di Kerry, la Foxy Lady. Partirono per un corso verso Bangkok. E svanirono senza lasciare traccia. La Foxy Lady finì in acque cambogiane e fu sequestrata, fuori da Koh Tang, da un’imbarcazione della Divisione 164 dell’Armata rivoluzionaria di Kampuchea, il nome ufficiale della Cambogia tra il 1976 e il 1979. Glass fu ucciso durante il sequestro. Dewhirst e Hamill furono portati a Tuol Sleng, interrogati, torturati, e assassinati. O forse, dopo le torture, vennero uccisi a Choeung Ek. È qui, a 30 minuti di auto, che i detenuti di Tuol Sleng venivano trasportati dopo che le loro confessioni erano state scritte, riscritte e perfezionate dal compagno Duch. A Choeung Ek, i visitatori di oggi si scontrano con file e file di teschi che fuoriescono dalle fosse comuni in cui sono state gettate persone macellate per crimini che includono la possibilità di parlare francese, indossare occhiali o amare troppo un membro della famiglia. Tale era la portata delle uccisioni a Choeung Ek che i visitatorisono invitati a seguire percorsi in legno attorno alle grandi fosse comuni. Le aree in cui i corpi devono ancora essere scavati sono recintate. In alcune zone, i visitatori sono avvertiti da segni di legno in khmer e inglese che possono apparire piccoli frammenti di ossa e denti dopo la pioggia battente. Fu qui che si presume che John Dewhirst e Kerry Hamill siano stati uccisi, forse vicino all’ampio tronco d’albero usato per picchiare i bambini fino alla morte che la guida ti indica mentre ti viene voglia di vomitare l’anima. “Mi è stata raccontata una storia da una guardia”, dice Hilary, “che John è stato portato fuori, legato a una ruota e incendiato a Tuol Sleng. Ma non sapeva, forse si trattava di un altro occidentale.” (rif. https://it.wikipedia.org/wiki/John_Dawson_Dewhirst e https://www.independent.co.uk/news/long_reads/cambodia-khmer-rouge-killings-fields-genocide-pol-pot-a8543801.html)

La storia di John Dawson Dewhirst e di Kerry Hamill mi colpì per la loro confessione. Avevano inventato un mondo in cui loro erano agenti della CIA unitamente ai loro genitori. Uno dei comandanti di Kerry era Capitan Pepper che era stato promosso capitano dopo aver preso parte come sergente alla storia dei Beatles. A Kerry suo fratello Rob ha dedicato un sito ed un film “Brother Number One” (http://www.kerryhamilltrust.com/)

Quello che resta. Quelli che restano.

Stay humans!




2 risposte a "Quelli che restano"

  1. Resteremo umani fino a quando non ci abitueremo all’orrore, ma purtroppo la storia ci racconta di come per l’uomo sia facile dimenticare

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